Il racconto della domenica: La luna di San Giovanni di Barbara Bedin
Mamma aveva i capelli crespi, poca conoscenza del mondo e una stima incondizionata del parere degli altri. Da lei ho ereditato l’ostinazione per la maternità, e una parrucca. Papà è un ricordo sfuocato, ero piccola quando è morto, lo hanno trovato dietro un capannone nella zona industriale; infarto, dissero, anche se non si è mai capito cosa fosse andato a fare lì, tutto in ghingheri, senza neanche un soldo in tasca. Da lui ho ereditato il coraggio delle scelte solitarie e un grosso pneumatico.
Ho trentasette anni, un buon lavoro e un appartamento al piano terra con un giardino che si apre sul retro, in fondo al quale, c’è un albero di Catalpa. Da uno dei rami pende il grosso pneumatico appartenuto a mio padre, una corda lo tiene sospeso da terra e, all’imbrunire, i riflessi delle ombre lo fanno assomigliare a una luna con un enorme cratere al centro. Tutte le volte che sono rimasta incinta, ho teso la corda verso terra per poi lasciarla all’improvviso in modo che iniziasse a oscillare. Mia nonna faceva così con il pendaglio della catenina d’oro che aveva appeso al collo, lo faceva ogni volta che le sue figlie le comunicavano di aspettare un bambino; ha avuto dieci nipoti e non ha mai sbagliato una previsione: se il pendaglio oscillava avanti e indietro era maschio, se faceva dei movimenti circolari, era femmina. Il mio pneumatico non ha mai oscillato in alcuna direzione, ho avuto sei aborti spontanei. I compagni con cui ho provato a diventare madre non hanno retto alla mia ossessione per un figlio e alla depressione che si presentava puntuale ogni volta che il mio ventre tornava cavo, così ho deciso di andare avanti da sola.
Stasera tocca al terzo uomo, spero sia all’altezza delle mie aspettative e si riveli un cretino almeno quanto gli altri due. Il primo voleva fare colpo, abbiamo passato la serata a parlare di politica, non potevamo essere più distanti; quando è arrivato il momento, si è zittito, neanche una battuta. Il secondo non riusciva a esprimere una considerazione personale in coda alle decine di luoghi comuni che si ostinava a sciorinare; quando abbiamo scopato, diceva le frasi di cui sono pieni gli Harmony.
Quando mi sono iscritta al sito di appuntamenti, ho fatto molta attenzione alle informazioni del mio profilo. Il selfie l’ho fatto con la parrucca di mia madre, assomiglio a Uma Thurman in Pulp Fiction. Di nessuno dei tre ho voluto leggere più di tanto, solo le informazioni necessarie; non voglio sapere niente con cui torturarmi il cervello quando verrà il momento. Li ho scelti tutti e tre con caratteristiche fisiche simili: capelli neri, occhi marroni, altezza intorno al metro e novanta, ottanta chili al massimo, nessun segno distintivo visibile, esito esami per malattie sessualmente trasmissibili a richiesta. Voglio che mi risulti impossibile qualsiasi associazione. Ho aspettato quattordici giorni dall’inizio dell’ultimo ciclo per fissare tutti e tre gli appuntamenti, da lunedì a mercoledì, uno per ciascuna sera, così dovrebbe essere impossibile risalire con esattezza a uno dei tre.
Il terzo arriva puntuale, la cena si svolge amabilmente, chiacchieriamo di argomenti superficiali e ridiamo molto, gli faccio credere di essere un dio in terra, lo gonfio come un palloncino. Lo facciamo nella macchina che ho preso a noleggio dietro il capannone dove porto la mia a fare la revisione. Spero che la parrucca non si sfili. Anche gli altri due li ho portati qui, è l’unico modo in cui riesco a mettere insieme la mia famiglia: indossare una parrucca e provare a generare una vita dove mio padre ha perso la sua. Mi chiede se voglio un po’ di musica. Non serve, gli dico. Non voglio associare nessuna canzone a questo momento e voglio che anche quello che vedo, mentre la mia nuca sbatte ritmicamente contro la maniglia della portiera, sia privo di elementi da ricordare: una parete grigia e rasata, senza intonaco.
Dopo un mese, ho la conferma: sono incinta, pago sedici euro per pisciare sopra due stick e averne la certezza. Fisso la prima visita, mi faccio prescrivere le analisi da portare al ginecologo e cancello il mio profilo dal sito per appuntamenti. Al policlinico arrivo alla settima settimana di gravidanza, ho la pressione alta, il seno che fa male, nessuna anomalia negli esami del sangue. Ho eliminato gli alcolici, mi passo spesso la mano sulla pancia ma ancora non sento niente; se deve succedere, spero accada adesso, come le altre volte, che mi scenda vischioso e veloce e la faccia finita subito. Non avevo mai pregato prima, adesso ogni momento è buono.
Non prenderti anche questo, sarò buona.
Al terzo mese ho un’emorragia, chiamo l’ambulanza, mi portano al pronto soccorso. Appoggio la mano sul ventre e lo accarezzo: non uscire ti supplico, gli dico, resta. Vuole che avvisiamo il padre?, mi chiedono in ambulanza. Non c’è nessun padre, rispondo stringendo le gambe per paura che il mio bambino scappi via.
Ti prego, Padre, ti prego.
Mi attaccano a una flebo, prima che chiudano il telo verde che corre intorno al mio letto vedo la stanza girare, qualcuno abbassa il volume, intorno a me il mondo tace. Mi dimettono un paio di giorni dopo, il bambino è ancora con me.
Si riguardi, stia a riposo il più possibile, mi consiglia il ginecologo, visti i suoi precedenti non corra rischi. Tutte le mattine scrivo il numero del nuovo giorno sul calendario, ho superato i cento, non ci sono mai arrivata e inizio a crederci. Mia madre mi raccontava che aveva fatto tutta la gravidanza a letto, che le nausee non la avevano mai abbandonata e che mio padre, tutte le sere, le raccontava la storia di una donna ostinata che aveva vinto nonostante tutto.
Darò l’otto per mille alla Chiesa Cattolica, per sempre.
Al quinto mese, durante un’ecografia, sembra che ci sia un problema, un’anomalia nel battito del bambino. Mentre sento il freddo del gel sull’addome penetrarmi le ossa, penso che stringere la mano calda di un cretino sarebbe comunque meglio di starmene qui da sola.
La pancia inizia a vedersi ma è la testa quella che sento pesare di più. Mi succede a ogni controllo quando so che gli organi che si stanno formando potrebbero risultare imperfetti, difettosi. Un tardo pomeriggio alla fine del quinto mese busso alla porta della vicina. Accompagnami, le chiedo, non mi sento bene. Arriviamo alla Mangiagalli quasi subito; i dolori al ventre sono forti, la testa mi scoppia, grazie al cielo non ho perdite. Come ho potuto pensare di farcela da sola, mi urlo dentro la testa, come?
Aiutami e aiuterò.
La vicina è gentile, aspetta tutto il tempo in sala d’attesa. Quando mi dimettono torniamo a casa, mi lascia il suo numero, mi dice di chiamarla se ho bisogno, di non preoccuparmi dell’ora. Siamo dirimpettaie ma non ci eravamo mai parlate prima: è arrivata in questo condominio quando è finita la mia ultima relazione, non sa niente dei miei fallimenti come incubatrice di feti, non sa niente degli uomini che non hanno creduto potessi farcela. Per lei sono una donna single come tante, che vive di lavoro e poco altro. In questa città siamo a migliaia.
La camera del bambino è vuota, fino al settimo mese ho deciso di non comprare niente, ma nel carrello di Amazon è tutto pronto: il fasciatoio, il tappeto a terra, il box, la culla con le lenzuola, il passeggino trio, i pannolini, le tutine, i body, la pasta protettiva, i biberon, lo sterilizzatore, i peluche. Sarà sufficiente un clic per avere tutto a casa. I colori sono tutti neutri, non ho voluto sapere se è maschio o femmina, non mi interessa, voglio solo che arrivi almeno al settimo mese. Ho dipinto il mio pneumatico in giardino di giallo, adesso assomiglia ancora di più alla luna, ma non l’ho più tirato verso terra per farlo oscillare. Dentro la gomma cava ho messo un vaso, l’ho riempito di terra e ci ho piantato dei rametti di fico, l’albero della vita.
L’altra sera, ho lasciato un doppione delle chiavi alla vicina, passa tutti i giorni per vedere come sto, se ho bisogno di qualcosa. Le ho detto, tienile, mi sento più tranquilla se ne hai un mazzo anche tu, non si sa mai. Mi ha portato dell’olio di mandorle e qualche dvd di film che ha già visto. È un periodo tranquillo, il bambino è molto calmo, non lo sento muoversi più di tanto, è come se avesse capito che sono sola, che siamo soli. Ho riletto un articolo sulle principali cause delle morti del feto. Non so perché l’ho fatto, so che non avrei dovuto, ma ero in bagno e quella rivista vecchia di un anno era l’unica disponibile. Nelle ore successive ho riconosciuto, nei vuoti del mio corpo e nel diario della mia gravidanza, tutti i possibili sintomi che avrebbero portato alla morte del bambino. Non posso farcela di nuovo, mi sono detta, devo fare qualcosa. Mancano due giorni per entrare nel settimo mese.
Non lasciarci, resteremo con te, amen.
Stanotte mia nonna mi è apparsa in sogno, camminava verso di me con una ciotola di fiori in mano; quando mi raggiungeva, me li depositava in grembo. Mi sono ricordata che domani sarà il 24 giugno e, stanotte, è la notte di San Giovanni. Per mia nonna è sempre stata una notte speciale durante la quale il sole si sposa con la luna, e le piante e i fiori vengono influenzati da una particolare forza. Dietro il condominio c’è un campo incolto tagliato in due da un piccolo fosso, ci vado nel tardo pomeriggio, raccolgo qualche papavero e fiordaliso, un po’ di lavanda, trovo anche due ginestre. In giardino raccolgo la menta e qualche altra erba aromatica che ho piantato alla fine della siepe. Al tramonto immergo i fiori e le foglie dentro sei bacinelle d’acqua, le lascio fuori in giardino tutta la notte e vado a dormire.
Oggi è il 24 giugno, ho dormito bene, mia nonna è tornata a trovarmi in sogno, aveva un sorriso largo, come quando capiva quello che nessuno le aveva ancora confessato. Esco in giardino e prendo una bacinella alla volta, rientro in casa e verso l’acqua, con i fiori e le erbe, dentro la vasca. Faccio tutto lentamente, cammino a piedi scalzi, un piede davanti all’altro, mi piego piano sulle ginocchia, tendo le gambe per rialzarmi, inspiro ed espiro contando fino a cinque. Tengo un po’ di acqua di San Giovanni da parte e riempio la peretta intima che ho acquistato in farmacia. Mi immergo nella vasca e rimango immobile a lungo, poi prendo la peretta faccio un’irrigazione interna, di modo che anche il bambino riceva la forza dell’acqua magica.
Ha i capelli neri, paura dei lampi e un telescopio. È sano, è un miracolo. Il soffitto della sua stanza è costellato di stelle adesive fosforescenti che illuminano le sue notti di una luce inventata. Domani compie cinque anni, per regalo ha chiesto un libro sui pianeti e un regalo a sorpresa “spedito da papà, ovunque si trovi”. Usciamo in giardino a raccogliere le erbe aromatiche che mancano per preparare l’acqua magica, abbiamo fatto un cerchio di bacinelle intorno alla Catalpa. Tira il vecchio pneumatico verso terra e ci si siede dentro, senza spingersi con le gambe, inizia a oscillare avanti e indietro.
«Da grande voglio fare l’astronauta e andare sulla luna, mamma».
Puoi fare tutto quello che vuoi, Giovanni. Lo penso ma non glielo dico. Non si parla ai miracoli, c’è il rischio che scompaiano.
Barbara Bedin