Il racconto della domenica: Coccodè di Francesco Rago
Questa volta il vecchio Ruben sentiva di aver scritto qualcosa di buono. Un romanzo attuale e ironico, a tratti grottesco, comunque in certi punti molto divertente.
Il fatto è che aveva ricevuto una soffiata da parte di un suo amico scrittore, un tale che si faceva chiamare GeiGei, al posto di Gianguido.
Ebbene, questo GeiGei per il mondo reale era un perfetto sconosciuto, ma nel microcosmo dell’editoria si era fatto notare per aver pubblicato un paio di libri che avevano attirato l’attenzione di certi critici. Uno di questi lo aveva addirittura accostato a De Lillo, un po’ per la prosa tagliente e rarefatta e un po’ perché certi passaggi erano davvero all’avanguardia. Un altro critico lo aveva definito “lo scrittore dadaista”. E questa cosa di essere definito sempre in qualche modo lo faceva andare in brodo di giuggiole, anche se poi a conti fatti non è che i suoi libri vendessero mai tanto. Anzi.
A lui comunque non importava di vendere, perché era molto ricco di famiglia, aveva ereditato una fortuna dal nonno e quindi poteva tirare a campare senza fare nulla. Ma questa cosa non l’avrebbe mai ammessa, in fondo gli piaceva far credere ai suoi conoscenti di vivere da signore grazie ai diritti d’autore dei suoi scritti.
Ruben lo aveva conosciuto a una presentazione, in qualche modo si erano trovati simpatici e da lì era partita una frequentazione per lo più epistolare. E proprio in una delle ultime mail GeiGei aveva scritto a Ruben che al Salone del libro aveva parlato con alcuni agenti e editori e tutti si erano detti stufi dei soliti drammi esistenziali. Basta con i sentimentalismi e con i piagnistei, quello che stavano davvero cercando era una penna ironica e audace. E siccome Ruben nella vita possedeva entrambe le qualità, aveva pensato di tirarle fuori per il nuovo romanzo.
Coccodè, già il titolo era tutto un programma. In pratica la storia di un amore platonico tra una gallina e un cetaceo, che poi era tutta una metafora di due adolescenti con modi di vivere molto diversi.
Una volta terminato, lo aveva inviato a una decina di case editrici e dopo un’attesa durata qualche mese, ecco che una di queste aveva abboccato all’amo. E si trattava nientemeno che della Frollino Editore, una delle più prestigiose in assoluto.
Aveva parlato al telefono con una segretaria dal timbro di voce alla Bruno Pizzul che, senza alcuna anticipazione, si era limitata a fissargli un appuntamento con il direttore editoriale presso la sede centrale di Milano.
E così al vecchio Ruben – vecchio come si può essere vecchi dentro anche a soli trentadue anni – non era rimasto che trascorrere i cinque giorni che lo separavano dall’appuntamento, in bilico tra un’ansia atavica, con annessi problemi di colite spastica, e un entusiasmo incontenibile nel quale si vedeva già nei panni del nuovo Pennac.
Il giorno stabilito il nostro scrittore in erba, con tanto di camicia e cravattino, aveva preso il treno che lo avrebbe portato a Milano Centrale. Il cravattino era stato un suggerimento di GeiGei, il quale gli aveva scritto che funziona sempre. A cosa avrebbe dovuto funzionare non era dato sapere, ma anche in questo caso Ruben si era fidato dell’esperienza dell’amico.
Seduto sull’Intercity Ancona-Milano, Ruben stava occupando il tempo a cazzeggiare su Instagram, così quando il treno si era bloccato all’improvviso aveva pensato a una normale fermata. Solo dopo parecchi minuti si era deciso a rimettere lo smartphone nel taschino del giubbotto e a guardarsi attorno per cercare di capire come mai il treno non fosse ancora ripartito. Poi era arrivata una voce: un pazzo si era gettato sotto i binari.
Ruben si era afflosciato sul sedile e con gli occhi lucidi aveva riflettuto su come era triste e ingiusto perdere il proprio appuntamento con il destino, per colpa di una persona egoista che nel suicidarsi non aveva pensato alle conseguenze che ci sarebbero state per chi invece aveva ancora tanti motivi per vivere.
«Secondo lei quanto ci vorrà?» aveva chiesto al signore seduto di fronte.
«Non saprei, ma credo che la polizia debba fare i rilievi del caso. Boh. Forse in un paio d’ore ce la caviamo.»
«Un paio d’ore?», Ruben aveva strabuzzato gli occhi, mentre il signore aveva scrollato le spalle come a dire che lui non poteva farci niente.
A Ruben non restava altro da fare che avvisare la segretaria della Frollini, la quale si era detta dispiaciuta di dover rimandare l’appuntamento di altri tre giorni. Al che lui, una volta terminata la conversazione, si era messo a piangere nei cessi del treno.
Poi una volta rientrato a casa, verso le otto di sera, per la rabbia accumulata si era trovato sul punto di sferrare un calcio in faccia alla sua gatta Lucrezia che aveva avuto l’ardire di fargli le fusa attorno a una gamba.
In vista del nuovo appuntamento, il vecchio Ruben aveva pensato di lasciar perdere il treno, con i suoi guasti, le sue puzze, i suoi suicidi e andare direttamente in macchina, anche se lui odiava guidare nel caos metropolitano. Si era fatto coraggio e a bordo della sua Peugeot – con Brunori Sas come piacevole colonna sonora – aveva affrontato la trasferta, anche perché in fondo si trattava solo di una settantina di chilometri, niente di che.
Aveva studiato su Google Maps il percorso e, siccome la sede della Frollini era in centro, avrebbe parcheggiato l’auto in un garage sotterraneo a pagamento e avrebbe proseguito con la metro. E così in effetti aveva fatto.
La Frollini aveva sede in uno storico edificio color avorio, a riceverlo c’era la segretaria con cui aveva parlato al telefono, che sempre con la voce di Pizzul gli aveva detto: «Eeehhh il dottor Frangisonio ora è occupato, c’è da attendere. Prego, si accomodi».
Ruben si era sistemato in sala d’attesa, dove aveva trascorso una mezzoretta a trafficare con lo smartphone, in attesa che il suo destino di grande scrittore si fosse compiuto. Poi finalmente la segretaria lo aveva scortato nell’ufficio di Frangisonio, che lo aveva ricevuto con un sorrisone da Stregatto.
Frangisonio era altissimo e magrissimo, aveva i capelli corti e radi sulle tempie, dei baffetti grigi e la carnagione olivastra. Chissà perché Ruben se lo era immaginato diverso. L’ufficio invece era esattamente come lo aveva pensato: elegante ma sobrio, con una scrivania in acciaio e vetro e una libreria di design che conteneva una serie di volumi.
I primi due minuti li avevano trascorsi a scambiarsi qualche convenevole, poi Frangisonio era venuto al dunque.
«Ho letto il suo libro», aveva dichiarato con fare solenne.
A Ruben erano cominciate a tremare le gambe, era il momento che aspettava da una vita, più o meno da quando in terza superiore aveva letto Jack Frusciante è uscito dal gruppo e aveva sognato di ripercorrere la parabola di Brizzi.
«… Ho voluto incontrarla di persona perché mi ha davvero colpito.»
«Ehm, gr-grazie», aveva balbettato Ruben guardandosi le scarpe.
«Lei ha uno stile che mi ha ricordato lo Scavicchia degli anni Novanta. Ha presente?»
«Certo, come no.»
E qui l’esaltazione di Ruben aveva raggiunto i massimi livelli.
«Peccato per la trama…»
Frangisonio si era interrotto e aveva preso a fissare un qualcosa fuori dalla finestra.
«La trama?», aveva osato Ruben con vocina da bimbo.
«La trama non ha senso. Che c’entrano una gallina e un cetaceo?»
«Sono una metafora.»
«Una metafora?», Frangisonio aveva inarcato il sopracciglio sinistro.
«La gallina rappresenta una ragazzina un po’ cretina e senza cervello, mentre il cetaceo sarebbe un ragazzo tutto muscoli e abbronzante.»
«Ma non si capisce! Non tutti hanno la sua immaginazione… ehm, diciamo un po’ contorta.»
Ruben non era riuscito a decidere se era un complimento o un’offesa.
«… Quando lei scrive, deve immaginare di farlo per un pubblico ampio, centinaia se non migliaia o milioni di lettori.»
«Ma allora…»
«Cosa?»
«Non mi pubblica?», aveva chiesto Ruben senza girarci attorno.
In fondo, a lui del giudizio di Frangisonio non importava nulla, l’unica cosa che aveva importanza era la pubblicazione con una casa editrice importante. Il suo più grande sogno.
«Be’, no.»
«Non capisco. Perché mi ha fatto venire fino a qui?»
«Gliel’ho detto: sono rimasto colpito dal suo stile e ci tenevo a dirglielo di persona. Io credo che lei abbia del talento: non lo butti alle ortiche scrivendo storie senza capo né coda. Si dedichi a storie più edificanti. Cioè, va bene l’ironia, va bene lo strappare una risata, ma poi una storia in qualche modo deve rimanere… Un lettore vuole emozionarsi, vuole identificarsi nei personaggi, vuole viaggiare con la mente. E soprattutto ogni storia deve avere dentro una specie di morale, un insegnamento, deve trasmettere speranza… Caspita, la sua si conclude con la gallina che viene gettata in pentola per fare il brodo e il cetaceo che vaga nei mari senza darsi pace… Una roba tremenda! Forse lei ha dei riferimenti culturali sbagliati, legga i libri pubblicati dalle grandi case editrici, si faccia un’idea… e la prossima volta utilizzi la sua vena brillante per scrivere una semplice storia d’amore. Un uomo e una donna. Non serve altro. Vedrà che funziona.»
Al momento di congedarsi da Frangisonio, Ruben era frastornato come se avesse fatto dieci giri di fila sull’ottovolante. Gli era sembrato che quell’uomo gli avesse portato via tutto. In quel momento si era sentito fallito come mai gli era successo prima di allora. Eppure a voler ben guardare, l’illustre editore aveva in qualche modo elogiato il suo stile e avere uno stile, in un mondo senza stile, era già un’ottima base di partenza. Questo Ruben lo sapeva, eppure non gli bastava.
Mentre stava scendendo i gradini della metropolitana, in mezzo a tutte quelle persone che ai suoi occhi sembravano avere uno scopo ben preciso, si era sentito talmente inutile e insignificante da voler scomparire per sempre dalla faccia della terra.
Così, mentre la metro era in arrivo sulla banchina, il vecchio Ruben aveva fatto un passo in avanti oltre la linea gialla, con la concreta volontà di farla finita. Una frazione di secondo e una mano lo afferrò per il braccio riportandolo al di qua della linea. Era un signore in giacca e cravatta, con lo sguardo d’acciaio del broker finanziario.
«Che sta facendo?», aveva detto con aria di rimprovero. «Se proprio vuole suicidarsi lo faccia a casa sua. Non sia egoista, c’è gente che ha fretta.»
Francesco Rago