Il racconto della domenica: La serpe e l’oro di Jacopo Milani
La statale pareva una serpe bianca tra i campi verdi, vista dalla terrazza di casa sua. Il padre la guardava ogni sera dopo cena, curvo sul parapetto, con un toscano in bocca. Diceva che gli piaceva perché era diversa dalla città, che si vedeva invece affacciandosi dall’altro lato della terrazza. In città il padre non ci era mai andato granché, lavorava in una bottega da calzolaio in paese, e in vent’anni che aveva quella terrazza, non gli era mai venuta troppa voglia di guardare le luci di Roma, nonostante fossero affascinanti.
Il ragazzo – che di nome faceva Leonardo, ma in famiglia lo chiamavano Leo – dopo la scuola, aveva l’abitudine di lustrare e sbullonare quella sua bicicletta blu, prima di montarci in sella e tornare quando faceva scuro. Gli era stata regalata da sua madre qualche estate prima, perché in provincia c’era poco da fare e così almeno poteva svagarsi. Leo le aveva dato anche un nome: Emily, perché era un modello prodotto in Emilia, solo che all’inglese, con quella Y finale, gli pareva che fosse più bello. Dopo migliaia di pedalate lì attorno, Leo conosceva ogni sentiero a memoria, e a quindici anni compiuti aveva scoperto che andare in bici era forse l’unica cosa che gli piaceva fare davvero. Alla madre lo aveva già detto, e lei ne era rimasta contenta in fondo, nonostante le perplessità, ma gli aveva sconsigliato di dirlo al padre. Leo però non provava alcuna vergogna per quella sua passione – non vedeva perché avrebbe dovuto – così quella sera, che non era affatto diversa dalle altre, mentre la madre era a letto e il padre fumava in terrazza, si mise accanto a lui e gli disse: «Papà, io vorrei diventare un ciclista».
Il padre non distolse neppure lo sguardo dalla statale. «Se c’è uno sport che proprio non capisco, è il ciclismo. Cosa pedali a fare? Chi vai rincorrendo? Neanche l’ombra di un soldo, ecco a cosa vai incontro» disse.
«Ma non sono portato per lo studio, e l’odore del mastice mi fa venire il mal di testa.»
«Non sei mica obbligato a venire a lavorare in bottega da me.»
«E che dovrei fare?»
«Che ne so. Hai presente Antonio Sambuchi, quello che abita dalle parti di Monterotondo? Fa il fotografo per matrimoni e cerimonie. Dice che si guadagna bene e si fatica poco, e che tante volte ci rimedi pure un pranzo o una bella cena. Mi ha chiesto spesso di te, potresti andare con lui. Ci metteresti niente a imparare il mestiere tu, con le tue doti.»
«Che ne sai delle mie doti?»
«Tua madre lo dice sempre che sei bravo.»
Leo sentì le dita prudergli nei pugni chiusi.
«Io a fare il fotografo con quello non ci vado.»
«E non ci andare, ce ne sono tanti di lavori nel mondo, ma il ciclista proprio no.»
Stettero in silenzio e il padre tirò una boccata dal suo toscano.
«Che poi non è neanche un mestiere, il ciclista, non è niente. Giusto un passatempo» aggiunse.
Dall’alto della terrazza, Leo poteva vedere Emily luccicare al chiaro di luna, poggiata contro un albero nel cortile.
«Sono bravo in bici, vado forte.»
«Mi fa piacere.»
«Quando facciamo le corse con gli altri, vinco sempre io.»
«Chi sarebbero questi altri?»
«Quelli che abitano nelle case popolari, i figli di Lina e Giovanni.»
Il padre rise. «Gareggi con Coppi e Bartali e non mi dici niente» disse, poi sbuffò una grossa nube di fumo.
«Guarda che vanno forte anche loro, e io li stacco almeno di un minuto, a volte anche due.»
Un cane abbaiò lontano nel silenzio che li circondava.
«Senti una cosa, lo sai come mi chiamavano a me da ragazzo? La perla, perché sembravo Pelé quando giocavo a pallone. Solo che a me a quattordici anni mi hanno mandato a fare l’aiutante ciabattino nella bottega di un vecchio.»
«E perché non hai provato a giocare a calcio?»
«E chi me lo dava il tempo di giocare? Il problema tuo è che non hai niente da fare, e quindi non hai voglia di fare niente.»
«Io ho voglia di andare in bicicletta.»
«Senti, fammi fumare ‘sto sigaro in santa pace.»
Leo guardò giù, pareva che Emily lo stesse aspettando per portarlo via di lì. Allora rientrò in casa, scese le scale e uscì in cortile, montò in sella alla bici e pedalò lungo il vialetto, in direzione della statale pensando “più forte che puoi”. Un piede spingeva l’altro sui pedali, la schiena gobba sul manubrio prima che iniziasse la salita, poi corse ancor di più, sembrava un cinghiale impazzito, su quella strada bianca. Se qualcuno lo avesse guardato, l’avrebbe visto comparire e scomparire a grande velocità sotto i fasci di luce giallastra dei lampioni. Quasi arrivato in cima alla salita si voltò verso casa sua, ma il padre, un uomo alto e magro, se ne stava curvo sul parapetto a guardare la città. Leo fece inversione e tornò indietro, sfrecciando su quella che adesso gli si parava davanti come una discesa ripida. Poteva vedere accanto a sé i fili d’erba piegarsi, come se si inchinassero al suo passaggio. Poco dopo si ritrovò di fronte a casa sua, ma non si fermò e, senza neppure pedalare, si lasciò trasportare dalla velocità che aveva accumulato tirando dritto. Di fronte ai suoi occhi, ecco spalancarsi le luci della città, lontane e brillanti pepite d’oro. Leo continuò a pedalare pensando: “Se non mi richiama giuro che non mi fermo”. A ogni affondo sperava di sentire pronunciato il suo nome nel silenzio della campagna.
Nel frattempo che il suo sguardo si perdeva tra quelle mille luci, lui pedalava più forte che poteva – come nessuno se non l’istinto gli aveva insegnato – e forse già non pensava più le stesse cose di qualche secondo prima, perché quell’aria che gli scompigliava la zazzera gli piaceva e non ricordava nulla che lo facesse sentire meglio. Così quando sentì la voce della provincia chiamarlo e il suo nome risuonare tra le foglie degli alberi, Leo preferì accelerare il passo tirando avanti. Quelle luci lì davanti sembravano una calamita per Emily che, lui lo sapeva, se avesse provato a girarsi, si sarebbe ribellata con tutte le sue forze. Allora si trovò al ponte, che era il limite di fronte al quale, per non far impensierire sua madre, era solito girarsi e fare indietro tutta. Eppure quella sera non ci pensò due volte: lo attraversò. Il suo nome nell’aria si fece sempre più lontano, quasi un rumore confuso che andava a perdersi nello sciabordio del fiume, nel fischio dell’aria attraverso i raggi della bicicletta, soprattutto nei suoi pensieri, che facevano più chiasso di tutto il resto.
Jacopo Milani