Il racconto del mercoledì: Ottobre di Elena Nemerov
La ghiaia, ormai asciutta, rifletteva la quiete del sereno che ogni tanto torna. Così tornò anche l’ombra tranquilla di Ernesto, fino a spezzarsi improvvisamente davanti al cancello di casa.
Lui abbassò lo sguardo fissandosi per un attimo l’arto monco, poi girò la chiave due volte, e si mise al sicuro dalla prevedibilità dell’autunno.
Il suo scarponcino usurato, dalla suola ancora bagnata dal mare, scricchiolò insieme al parquet. Ernesto aveva cinquantadue anni. Canne da pesca di altezze diverse e fucili erano appesi alle pareti scrostate, messi in mostra come stendardi di qualche antenato. Benché lui fosse sempre stato l’unico a utilizzarli, li usava per procurarsi il cibo, e continuò a farlo anche dopo quella volta che un cinghiale gli invalidò la gamba per sempre. Accanita. Una madre.
Quel pomeriggio rincasò tenendo, perpendicolare alla coscia ormai oltremodo rinsecchita, un’orata. Entrambi boccheggiavano, ognuno a modo proprio, supplicando taciturni una miracolante svolta.
Ernesto entrò in cucina gocciolando ovunque le prove di quell’insignificante omicidio, poi si grattò la pancia e accese il fuoco alla vecchia maniera: con un fiammifero. Solo allora l’atmosfera diventò lievemente rasserenante. Mite. Mamma.
Una mazzata per stroncare la testa del pesce e poterlo spolpare. Si usa così: un taglio deciso lungo tutto lo stomaco per aprirlo e ripulirlo delle viscere, lasciando sul tagliere soltanto ciò che è commestibile; buttando gli avanzi nel bidone dell’umido. Tutto a scomporsi nella danza circolare di qualche mosca. Avvoltoi. Genitrici.
Il cielo si scurì. Dalla finestra Ernesto notò lampi in lontananza. Lo aveva quasi previsto che sarebbe venuto a piovere, a grandinare sopra il raccolto. Fece spallucce. Non importava più. E quasi stesse per chiedere all’orata di unirsi a lui in una promessa d’amore eterna, fece banalmente un netto e nitido dietrofront. Quindi la cosse, e la mise nel piatto. Ci volle poco. Tempo. Seminale.
Ernesto la mangiò con lo stesso piacere che si ha per le cose trite e ritrite, fatte di quella noia trascinante alla quale non si può resistere. Risparmiare la vita. Ancora. Un feto.
Qualche minuto più tardi, seduto sulla panca di tarli e insenature tenebrose, guardò la sua volpe impagliata e abbassò nuovamente lo sguardo. Si chiese se fosse il caso di preparare il caffè. Poi, con la mano callosa si carezzò la testa ormai calva per via del cancro. Spacciato, ma a stomaco pieno, si congedò da se stesso.
E, invocando la propria mamma, divenne concime.
Elena Nemerov