Il racconto del mercoledì: Matarocco di Giampiero Pomelli
Ma’ dà un’alzata di spalle e si alza faticosamente dalla sedia di vimini, scrollandosi simbolicamente di dosso la vecchiaia con un gesto della mano, come per spazzar via un fastidioso insetto volato sul suo vecchio grembiule.
«Ca’ mi tene a’ fare ù Signure na’ stu’ stato. Megghio ca’ mi pigghia, accussì mi levo stù pinzere.»
Lancia un’occhiata all’orto e si china sulle piantine di pomodoro strappandone qualche grappolo.
«Oggi Matarocco!» esclama aggrottando la fronte.
«No, Ma’. Ho dei clienti in studio più tardi. Che figura ci faccio con l’odore dell’aglio in bocca.»
«Accussì c’ammazzi i vermi!» sentenzia Ma’, senza voltarsi.
Le propongo di cucinare il matarocco per cena, pur consapevole dell’inutilità del tentativo.
«Na’ sta’ casa u’ rico io ca’ si mangia. Prima c’era tuo padre, ora cumanno io. Tu fai l’avvocato, e mamma tua pensa a tutto il resto.»
Pronuncia quelle parole con una convinzione che mi fa tenerezza, tanto che le tiro un sorriso.
«To’ patre non l’avrebbe mai fatto» mi dice con tono d’accusa.
«Fatto cosa, Ma’?»
«Sto’ sorriso da femminedda» aggiunge poi fissandomi negli occhi, ancora curva sulle piantine.
«Credi c’un nu’ vio ca’ cuminci a trattarmi come na’ picciridda?»
«Che dici, Ma’? Era solo un sorriso d’affetto. Perché ti voglio bene.»
«A’ chisse devi volere bene» replica Ma’, ruotando la testa in direzione del pollaio ai piedi del vecchio fico d’india, «no ai cristiani!»
Vorrei sfoderare quelle belle parole lette sui libri a proposito di una certa umanità e di ciò che la rende così meravigliosamente diversa dalle bestie chiuse in quel pollaio, ma sarebbe inutile. Non mi ascolterebbe neppure.
Così mi limito ad annuire, lasciando che quel lieve sorriso svanisca nella distanza di un rimpianto.
Giampiero Pomelli