Il racconto della domenica: Ripararsi dal vento di Luca Trifilio
Sei sicura?
Sì.
Perché proprio oggi?
Perché no?
E se ci fossero… complicazioni?
Mi sento pronta.
Mattia sospira, Aggiornami, dice alla sorella. Ilaria riattacca, solleva lo sguardo sul tabellone elettronico, cinque minuti al regionale per una località di cui sa una cosa soltanto: di fronte alla stazione si trova il mare.
Ilaria iniziò a camminare addossata ai muri a undici anni, quando tornava sola dalle scuole medie. Da allora ha affinato la tecnica per rendersi invisibile. Col tempo ha imparato a convivere col timore delle moltitudini di persone e degli spazi troppo grandi, inadatti per trovare protezione. Appena ne ebbe il permesso, prese a uscire col buio e, durante l’adolescenza, sviluppò la convinzione di poter continuare così per sempre. Non parlarne coi genitori fu per certi versi una fortuna, per altri la definitiva consacrazione al terrore di sé.
Con le labbra tremanti e la testa appoggiata al finestrino del treno, guarda scorrere i campi e gli alberi sfiancati da luglio. Cova la sensazione di essersi lasciata qualcosa alle spalle, e crede con forza di non volere più esistere nella forma originaria, una pelle ormai desueta e pronta per essere abbandonata. Stringe la conchiglia che le ha lasciato Mattia in aeroporto, destinazione Erasmus.
Tienila con te fin quando ti servirà un posto in cui rifugiarti, le disse. Lei la rigirò tra le mani, meravigliata dalle forme geometriche, dalle asperità minacciose e dal riparo così fragile; e ancora, dai colori mai visti tra le strade di una città ingrigita dal tempo. Il fratello è stato l’unico ad aver compreso quanto Ilaria fosse una forma esile alla ricerca di uno scudo per abitare il mondo. Travolti da un successo crescente, i genitori non avrebbero potuto concepire macchie sociali dovute a una figlia inadatta. Disegnarono per i figli un futuro preciso, senza deviazioni, ma non funzionò: Mattia preferì il sogno del giornalismo d’inchiesta, Ilaria scelse di provare a comprendersi.
Accettò presto l’idea di essere bisognosa di un sostegno che nessuno poteva darle, soprattutto ora che Mattia era lontano migliaia di chilometri e parlava una lingua diversa dalla sua.
Quando scende dal treno, Ilaria è accarezzata dall’aria salmastra. Si assicura di avere il pennarello rosso che, in forme diverse, porta con sé fin da bambina, da un pomeriggio di fine inverno in cui scrisse il suo nome sul muro di un edificio. Lo fece col timore di chi non ha mai contravvenuto a una regola: immaginava la telefonata a casa, i giornalisti che si sarebbero fiondati sulla notizia, cercando di capire perché suo padre, un uomo così in vista, fosse stato convocato in caserma. Ma non accadde nulla: la scritta rimase lì, la occhieggiò il giorno seguente e rese inoffensivo un posto fino ad allora estraneo.
I muri diventarono pagine di diario, i mattoni pezzi di vita che mostravano al mondo i suoi sogni, pur custodendoli anonimi. Confidenti perfetti. Riuscì a costruire una familiarità crescente con ogni angolo della città, percorrendola a piedi in modo metodico, con una cartina sulla quale segnava le strade che aveva già marchiato e quelle che avrebbe invaso di sé: parole, nomi, piccoli avvenimenti, frasi dalle canzoni di Nada e di Björk.
Sulla fiancata della scuola, in un giorno di pioggia, scrisse: Troverò un luogo in cui non avrò paura di esistere?. Ai muri di un quartiere lontanissimo da casa, e quindi ideale per proteggere i segreti, affidò il desiderio più grande: Voglio vedere il mare, contornato da rondini fatte di sbuffi rossi.
La settimana scorsa, dopo un 27 a Neuropsicologia! scarabocchiato vicino all’ingresso dell’università, ha tracciato una linea sull’ultima strada. In tutta la città non c’è più alcun luogo in cui non sia visibile un segno del suo passaggio. Era giunto il tempo di spingersi dove non aveva mai osato.
Ilaria esce dalla sala d’aspetto della stazione e già vede il mare brillare. In quell’istante, l’intero universo le sembra immerso in un arancione intenso, vigoroso al punto di permeare anche i rumori. Stringe la conchiglia nella tasca con una forza tale da temere di polverizzarla: è quel lieve dolore a permetterle di mantenere una connessione con ciò che è stata e con ciò che intende essere.
Superata la fila di alberi, si ritrova parte di uno spazio alieno tinto di azzurro e di voci. Ilaria non trova tracce di sé, non ci sono pareti da rendere proprie, allora chiude gli occhi e respira per bilanciare il vuoto che le si è formato al centro del petto. La brezza porta note di agrumi, Ilaria respira la libertà che, d’improvviso, smette di significare ansia. Un sorriso le colora il viso di una meraviglia nuova, assoluta. Si sente pronta, ora per davvero, non come quando lo ha detto a Mattia, quand’era solo un tentativo per dare corpo a un sogno.
Si sorprende della serenità con cui sfila il vestitino. Non ha più senso ripararsi; non ha più bisogno di sottrarsi, nemmeno al vento.
Sto per tuffarmi, scrive al fratello; riprende quasi subito il telefono e invia una faccina sorridente. Posa sulla sabbia tiepida la conchiglia, tornata lì dove deve stare, pronta per essere abitata di nuovo. Fa scorrere i polpastrelli sulla superficie frastagliata, un addio carico di gratitudine. Ci pensa un po’, poi si piega sulle ginocchia e con l’indice scrive il nome che si è appiccicata addosso, Ila: è così che la spiaggia diventa sua. Accecata dal sole, si incammina verso il mare.
Poi inizia a correre.
Luca Trifilio
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