Il racconto della domenica: “Conquista pianeta terra” di Massimiliano Piccolo

 Il racconto della domenica: “Conquista pianeta terra” di Massimiliano Piccolo

Illustrazione di Federica Fabbian

Elia ha capito che non può più aspettare. A trentadue anni suonati, con e senza chitarra, si comincia a invecchiare, i capelli si fanno più sottili, si sfibrano e poi tutto diventa un casino. Anzi un declino, uno stillicidio tricologico.
Perché se vuoi diventare una rockstar e calcare i palchi del Coachella, del Glastonbury o dello Sziget, non puoi essere né calvo, né stempiato. Se poi hai la chierica da francescano, è la tua fine, sei fottuto. A meno che tu non abbia il carisma di Michael Stipe dei R.E.M.
Basta studiare il caso di Axel Rose per definire la situazione: anni di bandane, i capelli che forse se ne vanno, chi può saperlo, il ritiro dalla scena, le voci sul trapianto e poi la riapparizione per qualche sporadico concerto con quei capelli che si agitano nell’aria e sanno tanto di posticcio. Una specie di Barbie shakerata nell’aria fumosa di un palco grande quanto piazza San Giovanni.
No, si dice davanti allo specchio. Non deve e non può accadere. Non adesso. Con la consueta ossessione, si studia la fronte che guadagna sempre più spazio nei confronti della testa, affamata e divoratrice, in una drammatica desertificazione cutanea, e intanto ne approfitta per maledire i suoi avi. Calvo suo padre, così come suo nonno e, si dice in famiglia, anche il suo povero bisnonno. Tre generazioni di pelati a lavorare in ferrovia. Ma lui no, lui pretende che i capelli resistano fino al successo, fino a quando non raggiungeranno il grande pubblico, senza che si debba mettere a fischiare dietro a qualche interregionale coi freni cigolanti. La maledizione della genetica non può e non deve bloccare il suo spirito rock. Ma in compenso mette fretta. E anche tanta.

Qualcuno bussa alla porta del bagno. Eccolo il lato oscuro degli ostelli: mai un attimo di privacy, a parte quei cinque minuti netti per cagare e lavarsi la faccia, tipo centometrista sui blocchi di partenza. Sempre che non gli mettano pressione non appena si siede sulla tazza. Perché in quel caso, si ritrova con la stessa ansia della prima volta con Laura e sa già che non andrà in buca.
Dal modo energico di bussare riconosce il tocco di Lucio, che si fa chiamare Lucius perché dice che è più cattivo, più internazionale, più rock’n’roll. Lucius è il suo unico socio in questa avventura nordeuropea tra ostelli economici, zuppe viola fosforescenti alle barbabietole, live supplicati nei peggiori bar lituani e cappelli rivoltati a caccia di monetine per procacciarsi la prossima zuppa.

È lui l’unico del gruppo ad averlo seguito in questa piccola follia ex-sovietica. Purtroppo la seconda chitarra. È stato l’unico a crederci e non defilarsi, come tutti gli altri componenti dei The Fab Six, in fase di definizione del grande progetto conquista pianeta terra, come lo chiama Elia.
È lui il compagno fidato e ideale, con quel paio di problemi che si porta appesi allo zaino. Il primo è la logorrea; parla troppo, praticamente sempre, persino nel sonno. Ed è questo uno dei motivi che li rende ostili ai troppi compagni di camerata.

Poi c’è il secondo problema che provoca repellenza agli avventori degli ostelli in cui riposano: gli stivali. Neri, a punta, un po’ da rocker, un po’ da cowboy, per non parlare di quel suo cappello da mandriano texano. Ma ciò che gli nega il saluto mattutino durante la colazione, da parte di tutti, non è la chiacchiera ossessiva, né il discutibilissimo look di Lucius, quanto l’odore letale che emanano le calzature e i suoi piedi. Gli uni o gli altri. Gli uni e gli altri. Non sa quale dei due elementi scateni l’inferno olfattivo, se si possa trattare di una combinazione esplosiva di entrambi o del fatto che sia costretto a indossarli tutto il giorno, ma non appena se li leva, che sia pomeriggio o sera, le pareti e l’aria diventano verdi. Un verde acceso, brillante. Ed è davvero così. Un tanfo psichedelico. E non sta assumendo alcuna sostanza psicotropa, niente acidi o funghi allucinogeni. Niente di niente.
È tutto così terribile, così naturale. Non crede che sia dovuto al fatto che mangino poco. Perché accade a tutti quelli che gli stanno attorno. L’espressione si deforma e prende le sembianze di uno schifo immondo. Non soltanto una faccia schifata, ma un’espressione che assume le connotazioni di un’emozione, di un sentimento vero e proprio.
Così fanno colazione, alzano le tre dita nell’aria ancora verde, urlano rock’n’roll e poi se ne vanno in cerca di un altro posto dove suonare per poi riposare. Anche questo fa parte della dura gavetta per diventare vere rockstar. Del resto chi si ferma è perduto. C’era chi devastava hotel a cinque stelle in preda ai fumi dell’alcol. A loro non serve.
Chitarre in spalla, stivali ai piedi, pronti per conquistare prima il nord, poi il pianeta terra. Senza tapparsi il naso, senza voltarsi mai.

Massimiliano Piccolo

Blam

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