L’apprendista, libro di Gian Mario Villalta. Una storia di ordini e chiaroscuri. Recensione
L’apprendista di Gian Mario Villalta edito da SEM: la trama del libro
Siamo in una piccola chiesa della provincia friulana. Il primo a comparire sulla scena è Tilio, l’apprendista sagrestano, intento a raschiare via la cera delle candele dall’offertorio. Pulisce, sistema, mette in ordine, ché ogni cosa deve andare al suo posto e avere la giusta successione. Tilio ha oltre settant’anni, è vedovo e il suo rapporto con il figlio è fatto di distanze e incomprensioni. La sua vita l’ha trascorsa in paese senza spostarsi mai e vuole imparare a fare il sagrestano, nonostante la sua età. Il mestiere glielo insegna Fredi, che in gioventù è stato nell’esercito, come il padre, ed è andato in Giappone a fare il missionario per poi tornare. Il loro non è semplicemente il rapporto di un allievo e del suo maestro, Tilio e Fredi si raccontano, lo fanno tra una pausa e l’altra, parlano del loro passato, delle scelte fatte, del loro rapporto con la religione, per niente assertivo ma volto a comprendere. La tensione narrativa è tutta qui, racchiusa nel continuo andirivieni dal presente al passato, dalla domanda alla riflessione, mentre la quotidianità scorre alle loro spalle, fatta di pavimenti da lavare, di panche da mettere a posto; il tempo fluisce lento, organizzato in base alle incombenze previste per la chiesa, fra funerali e matrimoni, fra addobbi e pulizie. Un’amicizia, la loro, mai espressa a voce alta, ché non è il caso.
Il senso del tempo e il bisogno dell’ordine: i due aspetti del romanzo
Il senso del tempo e il bisogno dell’ordine: sono questi, a nostro avviso, i due contraltari del romanzo di Villalta, sono i bilancieri dell’intera narrazione. Il ritmo lento, pensato, uguale a se stesso della chiesa e delle faccende che Tilio e Fredi vi svolgono all’interno si contrappone in maniera evidentissima a quanto accade oltre le porte e le navate, lì dov’è la vita di paese, fatta di cinismo e maldicenze. Ma c’è anche la mania dell’ordine, del bisogno di sapere che ogni cosa ha un suo posto preciso, che le cose vanno fatte con una certa successione. Anche l’umiltà rientra in quest’ordine di cose. Infatti Tilio, a un certo punto, riflette proprio su questo, sul fatto che quando si inizia a imparare un mestiere si ha ancora contezza di qual è il proprio posto, a fartelo capire ci pensa quello avanti a te che ti dà ordini, ti rimprovera perché lui sa cosa bisogna fare. Ecco perché Tilio è contento di essere un apprendista sagrestano. Non è per il lavoro, ma è per capire che non è arrivato, che sa stare al suo posto e non è un posto che gli è stato assegnato per sempre. Secondo Tilio tutti sono convinti che i posti davanti siano i migliori, senza sapere che è proprio così che si finisce per vivere una vita intera con il timore di perderlo, quel posto davanti, perché magari c’è sempre qualcuno pronto a portarlo via.
La chiesa: un coprotagonista
La chiesa è il terzo protagonista di questo romanzo, non è solo scenografia in cui i personaggi si muovono, ma è il simbolo di un tempo che si va sgretolando tutt’attorno, nella vita di paese che si svuota, nelle messe semideserte, in un passato della provincia che non esiste più. I giovani se ne sono andati, e a restare sono soli i vecchi e i loro ricordi. La chiesa ha una sua voce, la si sente nei vuoti e nei silenzi fra i due personaggi quando sono seduti in sagrestia a bere il caffè, quando aspettano che il pavimento si asciughi, quando il don dà messa. La chiesa è creatura, divide il mondo in due, divide anche il tempo in due, incarna un sistema di valori, né migliore né peggiore di quello che vi è al di fuori. Non è un caso che la risposta del romanzo a questa dualità di sistemi di valori è il cinismo: è vero che non si dovrebbe dare per valida alcuna gerarchia di valori, ma è anche vero che non si può vivere senza, sicché paradossalmente è proprio il cinismo, tanto dei personaggi quanto dei loro racconti, che induce a credere nella vita, dura e pura, senza sentimentalismi né illusioni, eppure con la medesima tenacia e convinzione dei personaggi che abitano questo romanzo.
La scrittura di Villalta: un chiaroscuro
Villalta ci restituisce immagini poetiche e realistiche al contempo, fatte di chiaroscuri che se fossero quadri sarebbero dei Caravaggio. È una sacralità umana quella che viene messa in scena, e le parole sono pennellate intense, giochi di luce violenta e ombre. È nel buio, o per meglio dire, nella luce radente che si cela tutta la prosa di Villalta e la tensione narrativa di questo romanzo. Ed è proprio la contraddittorietà fra luce e buio che fa sì che i personaggi emergano in tutta la loro tridimensionalità. Il racconto epigrammatico di una voce in balia di un passato lontano e di un presente frantumato si contrappone al turbamento in capo ai personaggi principali per una vita fluita via.
a cura di Valeria Zangaro