Il racconto della domenica: Nero in casa di Simone Volponi
Successe quando Claudia andò a vivere per qualche mese dal padre, e ci andò insieme a Ivan. Erano fidanzati da cinque anni, a un passo dal matrimonio, mentre il padre di Claudia era a un passo dal funerale.
Il vecchio Eugenio, che poi tanto vecchio non era con i suoi sessantacinque anni, in pensione dopo una vita passata tra escavatori e calcinacci, viveva in una casa di poco più giovane di lui, ma consumata quanto lui.
Quattro pareti un tempo bianche e adesso ferite da scrostamenti che mostravano il marrone dei mattoni, leccate da chiazze di umidità scure come un cancro. Lo stesso colore nero e ammuffito Eugenio se lo portava nell’organismo sotto il nome di metastasi, e lo consumava senza pietà.
Per Claudia quell’omone era sempre stato un porto sicuro, una fortezza alta e larga che la accoglieva tra le braccia piene di calore, di certezze. Adesso doveva guardare il padre smagrito e pallido fare fatica a spostarsi dalla poltrona al letto. Doveva assistere alla fine, a quanto rimaneva della forza che l’aveva cresciuta e sostenuta per venticinque anni.
Claudia cucinava per lui, faceva le faccende di casa, lo portava a fare le analisi, buttava giù nell’anima le parole dei dottori – sempre sussurrate solo a lei, coi volti anonimi dei boia – ruvide e pesanti come schegge di metallo, e gli faceva compagnia. Il pomeriggio guardavano la TV insieme, qualche salotto di poche pretese messo a tutto volume perché Eugenio ci sentiva poco, o era il torpore delle medicine e del male a tappargli la ricezione dell’esterno.
«Papà, ti piace il programma? Vuoi che cambio?» chiedeva sempre Claudia.
«Che?» rispondeva lui.
«Ti piace o cambio? Metto un telefilm?»
«N-Noool lo sooo io…»
Dio santo, pensava Claudia, papà aveva sempre avuto un bel vocione, ma adesso sembrava parlasse con la tonalità di un baritono ubriaco.
Ivan lavorava tutto il giorno al volante di un autobus, giù per le strade contorte di Roma, e quando tornava la sera stanco morto, doveva cenare alla stessa tavola di un uomo quasi morto. Non gli piaceva.
«Possiamo almeno scopare?» cominciò a dire a Claudia, una volta soli al buio e a letto, cercando di entrare dentro di lei. «Dai, è il minimo. Devo sopportare tutte le sere tuo padre che sbava nel piatto… almeno scopiamo.»
«Guarda che io lo sopporto tutto il giorno.»
Claudia si sorprese nel dirlo. In cuor suo la fatica, il dolore e la rabbia scavavano senza sosta, e più stava al fianco del padre sfigurato nel corpo e nella mente dalla malattia, più si sentiva sprofondare. Ma il pudore reggeva, e rimetteva a posto le mani di un Ivan bestemmiante.
«Papà dorme nella stanza accanto, non è il caso.»
Dopo un mese la casa si era consumata, sembrava andare al passo col decadimento fisico di Eugenio. La carta da parati si era annerita, si era gonfiata in vari punti, in altri si era staccata ed era crollata sul pavimento penzolando come una serie di grosse lingue marcite. Il muro che rimaneva nudo sembrava masticato e risputato dall’umidità. Sul pavimento si era raccolto uno strato di sporco – qualcosa di nero e peloso – e sembrava avanzare ogni giorno portandosi dietro zone d’ombra che riempivano le stanze.
Claudia si faceva male alle braccia e alla schiena nel tentativo di pulire, ma quel nero sembrava aver deciso di restare lì a tutti i costi.
Con suo padre, la processione del dolore era sempre la stessa: medicine, TV, piatti scotti. Uscivano solo per le analisi, e i dottori iniziarono a vedere di fianco al malato uno spettro dalle sembianze femminili.
La sera Ivan era un fascio di nervi, rientrava con addosso le vibrazioni e i sobbalzi dell’autobus, insieme a tutte le voci dei passeggeri che accumulava nelle orecchie, e più giù, più in fondo.
Claudia si accorse che la mente di Ivan cominciava a non essere un bel posto.
La mente di Ivan era come una batteria. Non solo assorbiva le voci e le grida rinchiuse nella scatola che guidava tutto il giorno, ma assorbiva anche il nero della casa, e rischiava di dare di matto.
«Devo sfogarmi, e ho bisogno della mia donna. Se non lo faccio, vado a riempire di cazzotti quel derelitto che ci ha fatti finire qua dentro» le disse una sera.
La minaccia negli occhi di Ivan era nitida, così Claudia acconsentì a masturbarlo, non di più, mentre tendeva l’orecchio verso la stanza del padre per sentire se russava (è ancora vivo).
Fatto sfogare Ivan, Claudia si andò a lavare le mani, si infilò le cuffiette e si mise seduta sul letto a gambe incrociate ad ascoltare una radio a caso. Ivan mormorava nel sonno, le labbra si muovevano rapide sputando suoni sconnessi. Claudia, a testa bassa, con la faccia celata dai capelli, iniziò a piangere.
Era sempre stato lì sin dal primo giorno, in qualche modo Claudia lo sapeva. Anche se lo notò solo in quella notte di oscena solitudine. Il sottile liquido che strisciava lungo una crepa del muro, accanto al letto, era sempre stato lì.
Le sue lacrime furono attirate dal rigagnolo, le si staccarono dalle guance goccia dopo goccia, sfilacciate, e in una caduta obliqua finirono dietro il bordo del letto, dove il rigagnolo procedeva verso il basso.
Claudia si alzò, si accucciò a guardare sotto il letto, e trovò la piccola pozza. Sembrava luminescente. Strisciò sul pavimento, anche lì sotto c’era parte della macchia nera che invadeva casa. Ci passò sopra, ne sentì tutta la collosa consistenza, e in quel momento si specchiò nella pozza e vide i girini rossi.
Avvicinò la bocca alla superficie, le sue labbra penetrarono il liquido (era caldo) e Claudia baciò la pozza, ingoiando i girini a sorsi. Quando tornò sul letto si sentì sfamata, nutrita, nello stomaco i girini brulicavano e la fecondavano di assenza, ammutolendo ogni dolore.
La mattina dopo capì che Ivan aveva scoperto il rigagnolo molto prima di lei, e che da tempo si nutriva dei suoi frutti. Lo trovò sotto il letto la faccia nella pozza. Parlava con la voce ovattata dal liquido. E non parlava da solo, Claudia lo sapeva.
La notte seguente cedette alle minacce di Ivan – che dal “vado di là e lo riempio di cazzotti” era passato al “prendo un coltello, vado di là, e gli taglio la gola” – e fecero sesso per la prima volta da quando erano andati a vivere in casa di Eugenio. Fu una cosa sbrigativa, solo per Ivan, che comunque le chiese di farsi sentire. Claudia simulò un urlo strozzato pregando che il padre non la sentisse (russa, è ancora vivo).
Poi restò sveglia con le cuffiette nelle orecchie, aspettando che Ivan iniziasse a blaterare stranezze nel sonno. Quando le labbra di lui accelerarono, Claudia scivolò sotto il letto per nutrirsi.
Andò avanti così per settimane. La casa continuava a consumarsi in un nero irsuto che odorava di terra smossa e marciume, e diventava sempre più buia nonostante le finestre aperte al sole.
Un giorno Claudia aveva appena finito di lavare i piatti e si preparava a tentare di strappare dal pavimento la cancrena – aveva cominciato a definirla così – che avanzava sulle mattonelle. Andò verso il lavandino per prendere uno straccio, e ritrovò le stoviglie ammucchiate lì, più sporche di prima, come se non le avesse mai lavate.
Traboccavano, erano incrostate di quel nero denso, ne sbavavano sul pavimento grosse gocce.
Ogni sera concedeva a Ivan il suo sfogo rabbioso, si accertava di sentire il padre russare (è ancora vivo), osservava Ivan mormorare nel sonno e restava sveglia con le cuffiette nelle orecchie, mentre le sue lacrime venivano assorbite dal rigagnolo, l’unica espressione saporita di quel luogo infelice. Le donava l’assenza.
Lei mangiava i girini. Ivan mangiava i girini.
Gli effetti erano diversi.
Ivan era dimagrito, la sua pelle si era scurita, così come il suo sguardo. La sera finiva preda di un nervoso ostile che nemmeno il sesso riusciva più a sfogare. Mentre Claudia se ne stava seduta sul letto isolata dalle cuffiette, aspettando di nutrirsi di assenza alla pozza del rigagnolo, con la mente simile a una mosca dal ronzio ovattato, stretta nel bozzolo di una ragnatela, Ivan restava in piedi a spellare i muri dalla carta da parati. La tirava e quella veniva via come fosse pelle morta. Poi Ivan andava verso il muro dove scorreva il rigagnolo, in ginocchio sul letto, e restava lì a fissare il liquido opalescente che colava, annuendo.
La notte che suo padre smise di russare per non svegliarsi mai più, ebbe una visione. Un prete entrò nella stanza di Eugenio, con la Bibbia stretta nelle mani e portata al petto. Mentre raggiungeva il suo letto, pareva muoversi a scatti, cambiare forma: una volta era lei, una volta il prete. Claudia – diafana, smunta, nuda – si avvicinò al padre. Si chinò su di lui allungando la mano destra con l’indice e il medio tesi. Li aveva intinti nella pozza del rigagnolo, e aveva raccolto alcuni girini che adesso le si agitavano sulla pelle.
Spinse le dita dentro la bocca arida del padre, le girò sulla lingua per poi tirarle fuori lasciandogli un po’ di rigagnolo e di girini. Voleva nutrirlo, donargli l’assenza.
Ivan stava seduto in un angolo della stanza e mordeva il muro. Con i denti incideva simboli arcaici nel nero marcio che si sbriciolava sul pavimento.
Claudia restò stesa sul letto, con le cuffiette, la radio sintonizzata sul niente. Quella notte rimase incinta, sentì il feto gonfiarle il ventre.
Partorì all’alba.
Simone Volponi