Jonathan Bazzi: “Febbre”, un anno dopo. Un’intervista curiosa fra scrittura, anni ’90 e premi letterari
Quando dici Febbre, ormai pensi a quella di Jonathan Bazzi.
L’abbiamo apprezzato per il suo libro (che abbiamo recensito qui) e continuiamo a seguirlo nei suoi passi letterari, quelli di un percorso che si sta rivelando brillante.
Il fenomeno Bazzi è iniziato con un libro bello dalla copertina accattivante ed è arrivato a Radio3, al premio POP, al Bagutta, allo Strega e negli scaffali di molti italiani.
A un anno dall’uscita di Febbre cosa è successo? Quali traguardi sono stati raggiunti, come vive il presente, cosa immagina del futuro e quali sono le sue paure, le sue emozioni? L’abbiamo attraversato in questa intervista che parla di anni ’90, parole belle, Chi l’ha visto?, Ghali, passando per Teresa Ciabatti, Matteo B. Bianchi, Fandango, l’amore per la vita animale e qualche previsione sul Premio Strega 2020.
Prendetevi un caffè e leggete cosa ci ha raccontato Jonathan Bazzi.
Di Febbre ne hanno parlato anche i muri. La cosa che ti fa “godere” di più quando ti fanno i complimenti qual è? Lo stile, l’emozione, la trama.
Assolutamente lo stile. Scrivere per me è soprattutto questione di forma, ritmo e immagini. Con Febbre si parla – inevitabilmente – sempre molto dei temi in gioco, anche per il loro valore sociale o persino politico, ma io sono interessato principalmente all’uso estetico del materiale autobiografico. Mi piace spostare la realtà, o sprofondare in essa, muovermi in una zona ambigua nella quale i fatti si fanno paradigmatici e persino simbolici. Il che non significa che non accetti le letture sociali o che non le abbia persino coltivate io stesso, ma il mio rapporto con la scrittura prescinde, può prescindere, da tutto ciò.
Con Febbre abbiamo conosciuto molto di te e della tua storia. Ma quello che non conosciamo è il making of del libro. Raccontaci un po’ com’è andata: com’è nata l’idea, com’è arrivata a Fandango.
L’idea c’era già dal 2012, 2013. Inizialmente volevo raccontare solo Rozzano, la mia infanzia e le figure che l’hanno circondata. Quel primo proposito è rimasto in sospeso a lungo, concretizzandosi all’inizio solo attraverso piccole cose, racconti o articoli, pubblicati sui magazine con cui ho collaborato in passato, o anche sui social. Poi è arrivata la febbre del 2016, e la diagnosi. A qual punto avevo di fronte a me un ulteriore tema, un tratto in più della mia identità, anche questo scomodo, marginalizzante. Ho sentito quindi che Rozzano e la sieropositività avevano delle cose da dirsi, e ho provato a tenerle insieme.
I primi sette, otto capitoli li ho scritti nella primavera-estate del 2017, incoraggiato da Viola Di Grado, grande scrittrice e mia amica (all’epoca solo virtuale). Nell’estate del 2018, un altro scrittore, Matteo B. Bianchi, che già da tempo mi leggeva sui social, mi ha chiesto – per l’ennesima volta, credendo in me nonostante le mie tendenze dispersive – se fossi finalmente riuscito a mettere insieme del materiale organico, coeso. Gli ho mandato i capitoli scritti l’anno prima, gli sono piaciuti, li ha girati a Tiziana Triana e Lavinia Azzone di Fandango (direttrice editoriale la prima ed editor della narrativa la seconda) e, nel giro di due, tre settimane, ho firmato il contratto e ripreso a scrivere. Febbre l’ho finito a dicembre del 2018, i primi mesi del 2019 sono poi stati dedicati all’editing.
E invece, come sei arrivato alla scrittura?
Ho da sempre un rapporto molto assiduo con le parole, direi identitario. Sono stato un adolescente, e anche un post adolescente, molto confuso, pieno di interessi ma incapace di coltivarli a lungo. In qualche modo è la scrittura che mi ha scelto. Col passare del tempo i tanti esperimenti fatti con altri mezzi espressivi – ho studiato a Brera prima di iscrivermi a Filosofia, e ho a lungo sognato di dedicarmi alla musica, in particolare al canto – si sono fatti da parte, e la scrittura si è spostata in primo piano. Ho capito lentamente che poteva bastarmi lei, che nella scrittura avrei potuto far confluire per intero il mio bisogno espressivo. Però resto di base un tipo eclettico: mi interessano molte cose, soprattutto mi interessano le cose che conosco poco.
Chi è Teresa Ciabatti per te?
La mia scrittrice italiana preferita.
Ghali, nella canzone DNA, canta: “Le persone si dividono in chi nel dolore ci annega e chi poi se ne libera restituendolo”. Qual è il tuo rapporto con il dolore, e scrivendo Febbre ci sei annegato o l’hai restituito?
Spero di averlo rimodellato, di averne fatto una cosa diversa, un ente di tipo nuovo, per usare un po’ di linguaggio teoretico. In Febbre a un certo punto lo scrivo: riesco a convivere solo con le cose che posso usare, con cui posso farci qualcosa, che posso utilizzare per imparare, vedere di più. Per questo non avrei mai potuto tenere solo per me la sieropositività: farlo mi avrebbe impedito di rifletterci su, di farne un campo condiviso di parola e relazione. Mi interessa più conoscere che proteggermi.
C’è stato un momento, qualche mese fa, in cui hai pubblicato un post su Facebook raccontando del tuo computer in panne e dell’impossibilità di comprarne uno nuovo che ti permettesse di continuare a scrivere. C’è stata una grande risposta, tant’è che si è attivata una colletta spontanea. C’è chi ti ha criticato, forse prendendoti per un bugiardo perché spesso si crede che chi ha successo stia bene economicamente. Come spieghi a questa gente il connubio denaro-scrittura?
Uno scrittore guadagna circa un euro a copia – forse anche qualcosa di meno – e sono soldi che vedrà almeno dodici mesi dopo l’uscita del libro. Nel frattempo ci sono le presentazioni, le cui spese possono sì essere parzialmente coperte dalla casa editrice o dalle librerie/associazioni ospitanti, ma stare fuori casa tutto il giorno per alcuni – o molti – giorni al mese è comunque un impegno a tempo pieno che comporta costi maggiori dello stare a casa. Tutta questa situazione per un esordiente è ovviamente ancora più complicata. E in generale posso poi dire che il mio libro sta andando bene, se ne parla, è vero, ma non è certo un best seller. Non è un libro da classifica.
Ghali (scusa, mi piace parecchio!) nella canzone DNA canta: “Il successo è una droga che va sempre di moda. Se non ti fa più, prova a aumentare la dose”. Ecco tu hai avuto abbastanza successo (Candidato al Premio Strega 2020, Libro dell’Anno di Fahrenheit-Radio3, Vincitore del Premio Bagutta Opera Prima, candidato al Premio Pop – Premio Opera Prima), come lo stai vivendo e cosa ti fa paura (se ti fa paura) del futuro?
Le cose belle io le vivo sempre un passo indietro. Lavoro per ottenerle ma poi le lascio andare e mi rimetto in marcia. Mi viene spontaneo ma credo sia anche una modalità che ha i suoi aspetti benefici, protettivi. Pensando al futuro, mi fanno paura le aspettative e l’effetto che posso suscitare in me, e mi inquieta anche un fenomeno che credo alla fine sia, ahimè, quasi naturale: delle cose che vanno bene si inizia anche a parlare molto male, i toni si alzano, ci si sente in diritto di colpire con più foga di quel che si farebbe se di quello stesso libro (o album, o film) non stesse parlando nessuno. A quel punto, per tutelarsi, bisogna continuare a immettere nella propria comprensione questo tipo di promemoria, ricordarsi del quadro generale.
I libri, i film, le storie suscitano sempre emozioni: rabbia, nostalgia, tristezza. Qual è l’emozione che ti fa sentire più vivo e perché?
L’euforia davanti ai nuovi progetti, Agostino se non ricordo male la chiama l’allegria della mente.
Rivista Blam ha a cuore le parole: ci dici la parola che adori per suono o per significato? Ad esempio a me piace molto pronunciare “cenere”!
A me piacciono “sororale” e “mesmerismo”, poi sicuramente ce ne sono anche altre ma a queste due penso spesso.
Se ti dico anni ‘90, cosa mi dici?
Un sacco di icone pop della mia infanzia-adolescenza: Ambra, Lorella Cuccarini, le Spice Girls, la fase new age di Madonna.
E se invece ti nomino Chi l’ha visto?
Una mia grande paura diventata negli anni una grande passione. Da piccolo mia nonna, a Rozzano, cercava di propinarmelo e io la imploravo di cambiare canale. Ne ero terrorizzato, la sola sigla era in grado di provocarmi attacchi di panico. Ora non ne perdo una puntata: la paura, si sa, spesso cela attrazioni sconfinate.
Facciamo come a scuola: non ti faccio una domanda, parlami di un argomento a piacere. Qualsiasi cosa.
Beh, ti parlerei del mio amore militante per la vita animale. Sono stato vegetariano per più di dieci anni e ora sono vegano da quasi tre. Inviterei poi tutti quelli che stanno pensando di cambiare qualcosa delle loro abitudini alimentari a guardare qualche documentario, tipo Cowspiracy (è su Netflix) o Dominion. Gli animali sono gli ultimi tra gli ultimi, sono i corpi che non contano. E questa cosa mi fa uscire di testa.
Purtroppo devo lasciarti, ma sono curiosa di sapere cosa dicono i tuoi tarocchi: chi vince il Premio Strega 2020?
In realtà io sono interessato ai tarocchi soprattutto come strumento introspettivo più che come mezzo divinatorio. Però, giusto per giocare, posso estrarre una carta per ogni libro e vedere cosa esce.
(…)
La carta migliore è uscita per Ferrari.
a cura di Antonella Dilorenzo