Il racconto della domenica: La prima lacrima di sudore di Alessandro Fanfarillo

 Il racconto della domenica: La prima lacrima di sudore di Alessandro Fanfarillo

Lasciami la mano – Illustrazione di Angela Barbiera

Sei un bambino. Stai correndo verso i tuoi amici, ti trovi su un ponte e di fronte hai un breve porticato, ai lati il fiume. Tua madre ti sta chiamando, ti giri e la raggiungi per andare in paese. C’è il mercato, oggi. Ogni giovedì, d’estate, lei ti porta a fare una passeggiata fra le bancarelle; tu in realtà ti annoi perché si ferma sempre a vedere i vestiti e ti lamenti, ma più ti lamenti più si arrabbia, non sgridandoti o ammonendoti, bensì con lo sguardo (non severo, piuttosto deluso). Sai benissimo che quando tornerai a casa sarà offesa con te in modo velato, forse inconscio, e la cosa già ti preoccupa. Decidi di dimenticartene e cominci a pensare ad altro mentre guardi – assente – biancheria intima, maglie e pantaloni smuoversi sotto la mano pesante di tua madre, che cerca qualcosa da comprare per sé o da farti provare per vedere se ti sta bene: rosa sbiadito, bianco, nero, grigio, verde scuro, verde acqua e altri si agitano in un mulinello di colori che ha come centro fisso il paletto di ferro a cui è legato un cartello arancione che recita: “Tutto 1 euro”.

Le voci del mercato sono molto chiassose, tu chiudi gli occhi e fingi di essere in qualche altro posto: un porto. Respiri a piene narici e senti l’odore di pesce (non troppo fresco, forse) che viene dalla bancarella lì vicino: puoi immedesimarti perfettamente in questo mondo fantastico, senti il rumore dell’acqua che sbatte sugli argini, il fiume alle tue spalle è diventato mare ormai. Le chiacchiere che ti arrivano alle orecchie sono di gente che parla per l’ultima volta, prima della partenza, si raccontano di cosa è successo ieri e di come sarà il viaggio, di come si sono preparate e di cosa faranno una volta arrivate, se Dio vuole.

Tua madre interrompe il tuo viaggio, bisogna andare «In quel mare di vestiti non c’era niente di bello, proviamo a vedere in quell’altra bancarella» dice con voce amorevole. Mare? Possibile che abbia capito cosa stessi pensando? Ma no, l’istinto materno non arriva a questi livelli, o almeno credo. È molto più probabile che tu, ancora immerso nei tuoi sogni infantili, abbia sentito male. Riprendi a camminare verso la vostra nuova meta, ti accosti al marciapiede, metti un piede su, poi anche l’altro, ora passeggi sul bordo giocando a fare l’equilibrista. Intorno a te il niente: ci siete tu e il bordo bianco, sotto, l’infinito. Un piede davanti all’altro con la testa bassa senza sbagliare di un millimetro, pena la morte. Ti stanchi presto e allora alzi la testa e cominci a camminare col piede destro sul bordo e col sinistro sulla strada, lanciando ogni due o tre passi delle occhiate fuggevoli alla mamma per assicurarti che non ti stia guardando. «Cammina bene! – hai un sussulto – lo sai che finirai per farti male, non ti sono servite da lezione tutte le altre volte?» lo sai che te lo dice con dolcezza e preoccupazione, ma non puoi fare a meno di seccarti, come fai a farti male da un gradino così basso? Abbassi la testa e continui ad andare dritto avvicinandoti verso di lei, alzi lo sguardo e ti scruti intorno: sono tutti più alti di te, ora vedi un bambino della tua stessa età e lo guardi come si guardano due condannati a morte durante la loro ultima camminata verso il patibolo. Perché disprezzi così tanto questi momenti? Non sai ancora quanto ti mancheranno.

Dopo aver fatto il consueto giro del mercato concordi con tua madre una mezz’ora con gli amici, mentre lei continuerà a guardare per l’ennesima volta i vestiti che potrebbero finire nel tuo armadio (chissà cosa ci trova di così divertente). La saluti, le dai un bacio sulla guancia e ti avvii verso il ponte.

Mentre guardi a sinistra e vedi il fiume scorrere sotto di te, appoggiato al parapetto, ti chiedi se hai voglia di immaginare di buttarti nell’acqua; sei tentato, ma torni subito a camminare sul ponte, stanco di questi voli di fantasia. Ti balena un’idea in mente: non hai mai sudato! In realtà non è proprio così, però pensi che non hai mai sentito una goccia di sudore scorrere sulla tua faccia: partire dalla fronte e rigarti la pelle della guancia, e poi scendere giù fino alle labbra lasciando un sapore salato. Vuoi simulare quegli eroi che vedi ogni giorno in TV, che mentre combattono strenuamente contro terribili nemici sono costellati da diamanti di sudore, eppure non ci fanno caso e continuano imperterriti nella loro missione. Sei a metà del ponte ormai e, tutto preso da quest’idea, cominci a correre verso il piccolo porticato dalle colonne grigie. Vedi un gruppo di bambini dietro un paio di pantaloni appesi all’estremità alta di un furgoncino adibito a bancarella, ma non è verso di loro che corri, come potrebbe sembrare da fuori. I contorni del resto del mondo sono sfocati, è tutto un sobbalzare, e pensi che il fiume potrebbe uscire dagli argini da un momento all’altro, che il soffitto del porticato potrebbe benissimo toccare le teste dei tuoi amici e, perché no, schiacciarle. Continui a correre con i tuoi scomodissimi sandali che abbandonerai non appena avrai la concreta possibilità di scegliere cosa indossare ai tuoi piedi; raggiungi la fine del ponte: ti fermi all’improvviso, un po’ per la stanchezza e un po’ per le troppe persone, difficili da schivare in questo caso. Ti concentri mentalmente sulla tua fronte, senti un poro della pelle aprirsi (percezione dovuta sicuramente alla tua illusione) e una goccia di sudore lentamente scendere (questa invece reale) fino a raggiungere la guancia; a seguire altre microscopiche gocce a irrorare la fronte e a favorire la rifrazione sulla tua faccia della luce di quella giornata piacevolmente calda e aperta di fine primavera. La tua prima impressione non è di soddisfazione come ti aspettavi, strano. I tuoi amici ti guardano e tu sei immobile sulla fine del ponte – con la fronte bagnata – come stordito, non li saluti neanche. Doveva essere una sensazione piacevole, te l’eri studiata nei minimi dettagli per sentirti forte, virile, cresciuto, invece l’unica cosa in cui sei riuscito ad immergerti – a parte il sudore, ovviamente – è stata una vasca di disagio. Meglio, disillusione.

Sempre lì sul ponte, come bloccato nel tempo, pensi che non sei più unico, la goccia di sudore è arrivata anche per te: sei accomunato a tutti gli altri, sei come gli altri, non hai il posto di rilievo che pensavi di occupare. Senti di avere messo un piede dentro il mondo: il vero mondo, non le tue solite fantasie.

Una goccia dopo l’altra ti bagna la testa, ma le senti arrivare dall’alto, le gocce. Non capisci bene cosa sia questa strana sensazione, sei seduto, è freddo sotto di te, è duro. Apri gli occhi e vedi un pannello trasparente, l’acqua che continua a scorrerti sulla testa ti appanna la vista, ti passi una mano sulla faccia, ruvida. Il rumore è inconfondibile: sei in doccia, ti sei addormentato e sei caduto a sedere per terra, forse non addormentato, forse hai perso i sensi. L’acqua che ti scorre addosso continua a ricordarti il disagio di quel giorno di circa quindici anni fa, non riesci a pensare a nulla e sei di nuovo come pietrificato da questa situazione. Rimani seduto con una faccia persa, guardi dritto dinanzi a te, il pannello della doccia è trasparente, cerchi di guardare oltre: sotto i portici grigi, di fronte al ponte, in quella giornata così dolce da avere un retrogusto amaro – che più tardi sarebbe stato salato – dopo una mattinata passata a guardare vestiti, a sognare città lontane, a immedesimarti in equilibristi, supereroi, tuffatori, corridori e la mamma, vedi gli amici che ti aspettano per giocare. Aldilà del pannello trasparente, sotto i portici grigi, vedi la vita continuare.

 

Alessandro Fanfarillo

 

Alessandro Fanfarillo nasce a Frosinone nel 1996. Ha studiato Lettere Moderne a Bologna e Editoria e Scrittura a Roma. Le sue due grandi passioni sono la letteratura e il calcio, perciò è nella redazione de L’Irrequieto e scrive per LazioPress. La sua aspirazione è quella di lavorare con i libri, ma forse dovrebbe cominciare col sistemare quelli che torreggiano sulla sua scrivania.

Blam

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