Una persona senza nome e surreale alle prese con l’ossessione per la perfezione: «Border on perfection» è il racconto di Federico Dilirio

 Una persona senza nome e surreale alle prese con l’ossessione per la perfezione: «Border on perfection» è il racconto di Federico Dilirio

Collage di Ottavia Marchiori

«Mi sono appena rovesciato un bicchiere sul pigiama» disse guardando la sua immagine riflessa nello specchio. Ci aveva messo un secolo, ma alla fine il segnale era arrivato. Il segnale era proprio quella macchia. Si diresse alla dispensa. Guardò il suo piccolo tesoro. Decise in quel momento quale fosse il più grande. Non fu una scelta facile, come pensava. I colori variano, intrappolano l’occhio. Capita lo stesso anche con lo spessore. È escluso che egli sia andato a tentativi. Ha compiuto misurazioni precise al decimo di millimetro. Non è bastato, però. Non ha mai perso la concentrazione. Mai. Non ha aspettato l’ultimo momento. Non si è fatto abbattere dalle difficoltà. Ha cercato di rispettare la sensibilità di ognuno, ha cercato di coglierne il sentimento sotteso: non tutti erano fatti per accogliere, per abbracciare, e non a tutti era concesso il diritto di soffrire. Ognuno è fatto a modo suo, ha il suo carattere, anche se al volgo sembrano tutti un unico ammasso indifferente. Non è così. Tutti trasportano un’anima: l’anima di chi li ha toccati, di chi li ha amati. Nel loro caso specifico l’anima era passata tra le labbra, dalle bocche, sulla lingua. Una volta messi in fila, nell’appartamentino, apprezzò con soddisfazione come il più grande si fosse adagiato di fronte alla porta di ingresso, e il più piccolo in bilico sopra il cuscino del letto. Da allora avrebbe dormito per terra, rispettando quella scelta. Ne sarebbe valsa la pena. Aveva stabilito un contatto e una gerarchia. «Siamo salvi» si disse. Tutto sarebbe trascorso in perfetta armonia, prima di iniziare a procedere. Scaldò trentasette secchi di acqua piovana, senza mai raggiungere la temperatura di ebollizione. Poi eseguì i test. Sembravano tutti molto resistenti. Con una cannuccia aspirò via il liquido e, anche se non avrebbe dovuto, lo eliminò facendolo cadere nel tombino in cortile. Senza farsi vedere da nessuno: che domande, ovviamente!

«Altro mercurio per i pesci» si rassicurò. «O per i topi delle fogne.» Per fortuna nessun animalista lo vide. Proprio nessuno lo vide. Gli animali sono il cancro del pianeta, pensavano allora tutti quelli che animalisti non erano. Ancora non pochi, si rassicurò. I pesci: scarafaggi con le pinne, pensavano quei pochi, sopravvissuti, eroi specisti. «Voi che ve ne nutrite mi fate schifo, non siete degni» bofonchiò, risalendo le scale. Riempì poi ognuno di loro con un sorso di vino e notò come reagivano, ciascuno in modo peculiare: chi lo accoglieva, chi lo rigettava, chi lo assorbiva. Pensare che ognuno di loro non avesse una personalità propria era chiaramente un errore. Un errore grave. Molto grave. La tentazione c’era, ecco perché il fallimento della missione era sempre dietro l’angolo. Acquisita lucidità, proseguì indefesso nel suo lavoro. Più di un lavoro, era un cammino. Più di un cammino, era una missione. Più di una missione, era una vocazione. Più di una vocazione, era una preghiera.

La quantità di vino assorbita fu sufficiente per traghettarlo all’ultima fase del compito. Prese i corpi dalla cantina. Annotò con discrezione come questa volta dal basement fossero stati precisi. Erano tutti conservati con cura e non mancava nessun arto, come si addice a un servizio richiesto da professionisti a professionisti. Decise di avere abbastanza tempo per dedicare un giorno intero a ripiegare i corpi dentro ognuno di loro. Cominciò dai più piccoli, e benché ci volessero attenzione e mani da chirurgo, la cosa lo appassionò a tal punto che compose figure così complesse da ricordare certe opere di espressionismo astratto o di action painting. Dovette porre estrema attenzione a non crogiolarsi nell’autocompiacimento. Quando si compiaceva combinava sempre dei pasticci. Una neurodivergenza, la sua speciale neurodivergenza. Con quelli più grandi l’esercizio fu diametralmente opposto. Pretese da sé una sorta di equilibrio essenziale, per poter lavorare sui pieni e non sui vuoti. Fu come se la stessa grandezza dei maggiori gli imponesse sessioni di meditazione prima e dopo i numerosi tentativi di raggiungerla, la perfezione. Con l’ultimo si giocò il tutto per tutto: girò nudo per casa tre giorni, bevendo acqua direttamente dal rubinetto e non mangiando più. Ammirò il suo corpo nello specchio, conscio di aver fatto un ottimo lavoro: non un filo di grasso. Si depilò con accuratezza la sera prima e dormì un sonno senza sogni.

Si svegliò al sorgere del sole, felice.

Infilò le gambe dentro il più piccolo: la destra, poi la sinistra. Quindi si calò. Le braccia furono la parte più difficile, provò varie combinazioni, prima di rasentare la perfezione, che verificò allo specchio, posizionato su di un trespolo, per ammirare la sua arte.

Imbucò in ultimo la testa: calva, al di là di ogni ragionevole limite. Per evitare fraintendimenti aveva eliminato ciglia e sopracciglia.

Chiuse gli occhi, respirò profondamente nell’attesa che lei aprisse la porta all’orario prestabilito.

 

Federico Dilirio

Blam

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