L’assenza mai pronunciata di una famiglia a metà: «Due scarabocchi neri» è il racconto di Francesco Ferrara
Si avvicinava la fine di luglio, e mio figlio trovò un uccello morto sul davanzale della finestra. Sembrava appena uscito dal freezer, a pancia in su, con le zampette rigide e gli occhi aperti. Secondo le mie conoscenze era un merlo. Ma avrebbe potuto anche essere uno storno, dato che sono simili. Non che fossi un esperto. Sono cresciuto in campagna, da bambino me ne aveva parlato qualcuno, credo mio padre, e conservavo l’informazione in un angolo della memoria.
Per avvicinarmi alla finestra saltellai tra i giocattoli sparsi sul pavimento. Osservai con più attenzione il becco, il piumaggio, il contorno degli occhi. Era senz’altro un merlo.
«Che gli è successo?»
«Forse era disorientato ed è andato a sbattere.»
«Lo aiutiamo?»
Tagliali corto: non potevamo fare nulla. Anzi, la cosa migliore era lasciarlo dov’era. Mio figlio chiuse gli occhi per due o tre secondi. Fece di sì con la testa e andò in cucina a fare colazione. Più taciturno del solito, si ingozzò di latte e Gocciole. Nell’attesa che finisse, lavai i piatti della sera prima.
Dopo colazione lo accompagnai al centro estivo, che non offriva nulla di estivo, a parte il caldo soffocante e l’aggressività delle zanzare. Si teneva nella stessa scuola dell’infanzia con le stesse maestre.
Mio figlio spingeva il monopattino sempre col piede destro, a un ritmo regolare. Le ruote, scorrendo sull’asfalto, si illuminavano. Gli camminavo dietro a una distanza di un paio di metri. All’incrocio si fermò.
«Sono stanco, portalo tu.»
Presi il monopattino e rimanemmo a guardare un camion della spazzatura che sferragliava per sollevare a fatica un cassonetto tutto ammaccato. L’odore di marcio si infilò nelle narici, e scese giù nei polmoni. Guardai mio figlio, mi diede la mano, insieme attraversammo la strada. Camminammo così, in silenzio, fino al cancello della scuola. Davanti alla classe dei Ragnetti lo aiutai a cambiarsi i sandali. Mi abbracciò e corse dentro. Era grande e grosso, mio figlio, dimostrava più di cinque anni. Eppure, quella mattina, non mi accorsi che stava rimpicciolendo un po’ alla volta, senza che io potessi farci niente.
Nel pomeriggio il merlo era ancora sul davanzale. Una fila di formiche marciava sull’addome confondendosi tra le piume nere. Frenetiche e ordinate, entravano nel becco semiaperto, ne uscivano come stordite per continuare la ricerca di cibo. Me le immaginai impegnate in una marcia militare, con i tamburi, la fanfara o quello che è. Mio figlio se ne stava con la testa nell’armadio a frugare tra i vestiti. Prese una vecchia scatola da scarpe, aprì la finestra e soffiò forte sulle formiche. Molte volarono giù. Quelle rimaste iniziò a schiacciarle con il pugno chiuso.
«Che stai facendo?»
«Lo tengo dentro per un po’.»
Lo lasciai fare. Liberò il merlo dalle ultime formiche e lo posò con delicatezza dentro la scatola. Appoggiò la scatola sul tappeto, accanto al letto. Aveva riempito d’acqua un piccolo contenitore di plastica. Mise anche quello nella scatola.
«Se ha sete, può bere» mi disse.
Fino a sera costruimmo e smontammo più volte un trenino della Lego, inscenammo una lotta tra dinosauri e leggemmo un libro di Geronimo Stilton. Dell’uccello credevo se ne fosse dimenticato e aspettavo che andasse a letto per gettarlo nella spazzatura. Invece subito dopo cena corse in camera. Ci rimase per tanto. Sembrava ci parlasse, anche se da dietro la porta non riuscivo a capire cosa gli dicesse. Quando entrai, mi chiese:
«Secondo te ha un figlio?».
«Non lo so, tesoro.»
«Ce l’ha.»
Gli diedi la buonanotte. Spensi la luce e andai a fumare una sigaretta. Il balcone si affacciava sul retro del ristorante cinese, un micromondo che inesorabile proseguiva il suo corso: il lavapiatti scrostava un pentolone di alluminio, il titolare sbraitava al telefono con i fornitori, una pianta spuntava incerta dal cemento del cortile. Che senso aveva, proprio non lo sapevo.
La mattina dopo mio figlio si svegliò molto prima del solito. Lo trovai seduto sul pavimento con la scatola tra le mani.
«È vuota.»
Volevo ripetergli tutto quello che avevo pensato, parola per parola. Era una storia articolata, convincente, ma riuscii soltanto a balbettarne una sintesi. Gli raccontai che durante la notte l’uccello si era ripreso ed era volato via. Nient’altro. Mio figlio inclinò la testa di lato. Non rispose, ma mi parve sul punto di piangere. Gli tolsi la scatola dalle mani e la posai sul letto, accanto a lui.
«Sei dispiaciuto?»
Due lacrime si gonfiarono agli angoli degli occhi, senza cadere.
«Dov’è andato?»
«È tornato dalla sua famiglia.»
Lo presi in braccio. Lo portai in bagno per fare pipì. Misi un po’ di musica dal telefono e lo aiutai a vestirsi. Non sapevo cosa dirgli per tirarlo su, e alla fine non dissi niente.
Andai a riprenderlo verso le quattro del pomeriggio. Grondava sudore. I capelli fradici, il viso arrossato. Prima di uscire dalla classe lo prese dal suo cassetto dei fogli. Era venerdì, e il venerdì potevano portare a casa i disegni della settimana. Li guardavo lungo la strada del ritorno. Erano camion tutti pressocché uguali. Cambiavano pochi dettagli che permettevano di distinguere un camion dei pompieri da un camion cisterna, un camion cisterna da un autoarticolato e così via. Pensai che fosse diventato bravo a disegnare. Glielo dissi. Pensai anche che avrei dovuto dirglielo più spesso, che era bravo. In fondo alla pila di disegni ne trovai uno diverso dagli altri.
«L’hai fatto tu questo?»
Mi sforzai di allargare le labbra in un sorriso. La domanda cadde nel vuoto.
C’era un piccolo scarabocchio nero al centro del foglio e accanto uno scarabocchio più grande, sempre nero. Doveva aver fatto una pressione notevole perché in alcuni punti il foglio era strappato. Erano due gomitoli anneriti, ecco cos’erano, con delle zampette solo accennate, le ali, un becco. Una vibrazione mi mosse le dita. Indicai lo scarabocchio più grande.
«Tesoro, questa è la mamma?»
Si voltò come se il papà fosse fuori di testa. Si limitò a scrollare le spalle per poi continuare a spingere il monopattino. Entrati in casa, accartocciai il disegno e lo gettai di nascosto nella spazzatura. Il foglio cadde sul corpo stecchito del merlo. Avevo dimenticato di portare giù la spazzatura e l’odore putrido della morte salì rapido e compatto. Una stanchezza indicibile si diffuse dentro di me. Le giornate mi apparvero come uno sfiancante sfoggio di resistenza. Sentii le pareti dello stomaco lentamente contrarsi. E avevo una gran voglia di urlare. Dal soggiorno provenne la voce di mio figlio. Tutto non durò che un istante. Ripresi il disegno, lo stesi per bene e lo attaccai al frigorifero con una calamita.
Francesco Ferrara