L’Italia vista con gli occhi di una bambina: «La bambina pirata» è il racconto di Valentina Cottini
Amina guarda via Marconi fuori dal finestrino. Ha i conati di vomito perché non è abituata a prendere l’autobus e devo chiedere a una signora se può farla passare più verso il vetro. La signora le fa spazio e Amina si attacca al corrimano. Quando superiamo piazza Malpighi, mi dice che le piacciono i fiori e che lei tutti quei fiori non li vede mai. La prima volta che sono stata a casa sua, in una nicchia buia dietro alla porta d’ingresso c’era un vaso pieno di fiori di plastica.
L’autobus frena di colpo e Amina scivola distratta all’indietro; la fermo al volo e lei mi abbraccia. Mi dice che è contenta e io sono contenta quanto lei. Poi torna con la testolina contro il finestrino: da qui, tutta la fisionomia di questa bambina si riassume in una cascata di capelli neri lunghissimi. Penso che in questi irreprensibili entusiasmi e nel mal d’auto, mi ricorda me da bambina, ma che io ho avuto un’infanzia piena di nonni e di verde e un’altalena tutta per me. Più di vent’anni fa. Che vuol dire che Amina potrebbe quasi essere mia figlia.
Quando scendiamo in Porta Castiglione, mi fa tantissime domande. Questa è una scuola? Qui fanno il gelato? Perché si chiama porta, se è un arco? Questa è una chiesa? Mi dice che il suo maestro di Corano le fa imparare delle filastrocche in arabo. Me ne recita una che parla delle foglie nel vento e degli amici e poi mi racconta che in arabo c’è un modo per dire che hai letto il Corano per intero una volta.
Ad Amina piace molto parlare di dio. Mi chiede se io prego. Per lei non è importante chi prego, ma che io preghi. E io non so risponderle, ma lei ha abbastanza parole per tutte e due. Mi spiega che nel Corano, Allah dice che a volte le persone pregano dei con nomi diversi, ma che il dio è sempre lo stesso per tutti.
Amina, quando cammina, guarda molto intorno a sé e moltissimo per terra, sia mai che trovi qualche tesoro, questa bambina pirata. All’entrata dei Giardini Margherita, i suoi occhi inciampano su uno scintillio e trova nella ghiaia una moneta da due euro. La afferra allegra e mi dice che il suo dio le ha portato fortuna, che quei due euro saranno il suo tesoro segreto, che li nasconderà e poi ci comprerà qualcosa di suo-solo-suo. Perché sennò, se li dà ai genitori, loro ci fanno la spesa. Piega le sopracciglia e mi guarda seria:
«Tu non gli dici niente, vero?».
«Non dico niente» le rispondo.
Allora si ferma, appoggia lo zaino rosa su una panchina, lo apre e tira fuori un quaderno grande quanto un indice, chiuso con un elastico dorato; poi infila con cura la moneta da due euro tra le pagine. Ripone il quadernino in fondo allo zaino, lo richiude e saltella felice; mi prende per mano, «Che bella giornata!» mi dice.
La porto a fare i compiti estivi alle Serre, sperando che il verde le faccia bene. Ha una tosse terribile da settimane, forse mesi; mi terrorizza l’idea che sia colpa della muffa che si arrampica inarrestabile sui muri di casa sua. Ma forse no, mi dico. Forse è solo una bambina con una lunga tosse, nulla di questa miseria la ferirà.
Amina si avvicina al tavolino che le indico; tentenna, ha paura degli insetti. Le dico quello che mia nonna diceva a me: «Non preoccuparti, sono così piccoli. Sono loro che hanno paura di te perché ti vedono grande. Se tu non fai loro del male, loro non lo fanno a te». Amina guarda con diffidenza il piccolo grillo sul tavolo, poi lentamente si siede e lui salta via.
Spalanca gli occhi e mi dice: «Che salto!».
«Hai visto come saltano i grilli, Amina?»
«Ci vuole coraggio, per fare un salto così!» mi risponde la bambina pirata, misurando il coraggio con le mani.
Penso che se Amina fosse un insetto, sarebbe senz’altro un grillo, con queste gambe lunghissime saltellanti che vorrebbero sempre fuggire via. La meraviglia tutto del mondo: i nonni parigini della sua amica Sara, le fotografie dei fiordi sul libro di geografia, i suoni delle parole in spagnolo. Vorrebbe poter viaggiare. Mi dice: «Io posso andare solo in Bangladesh e in Italia, e in Italia e in Bangladesh» intendendo per Italia un raggio di percorrenza che ha il centro a casa sua e una circonferenza che copre la scuola, il parco di via Fioravanti e la moschea – e in Bangladesh la casa dei nonni a Ishwaripur. Mi racconta della sua estate al mare, e parla di barche giganti, grandi scivoli acquatici, castelli di sabbia e stelle marine rosa, pesci iridescenti e grandi quanto una coscia, gelati a pranzo cena colazione; il piano della fantasia che cavalca sul piano del quotidiano, e io comincio a discernere i due piani ma non le dico nulla, perché nei mesi ho imparato che la fantasia è il modo che ha Amina di arginare la noia, la solitudine, infine il confronto.
Tra i compiti delle vacanze ha un esercizio che richiede di descrivere una casa: ne immagina una di legno, in montagna, con le finestre a forma di cuore che danno su un torrente da cui si abbeverano i cerbiatti – usa proprio questo verbo qua, dice si beverono –, e poi immagina dei bambini in cortile, quattro bambini che giocano a palle di neve, e poi a nascondino dietro alla casa, nel bosco, che è pieno di scoiattoli, salgono sulla cima della montagna e da lì le nuvole sono vicinissime e io le devo proprio dire: «Amina, è una storia bellissima, ma dobbiamo prima descrivere la casa». Allora sì, descrive la casa, ed è una casa un po’ piccola, con un camino piccolo, e che dev’essere tutto piccolo così ci sta tutto, non serve che sia nuovo, solo un po’, che va bene un tavolo piccolo, e i muri bianchi. «Non come quelli di casa mia,» mi dice, «tutti puliti, sai che in Bangladesh ho una casa più grande?» mi dice. «Che ha tre piani, e tante camerette, una per uno per me, Fatima e Yusef, e ci sono le pecore e le galline, in Bangladesh, e tanti fiori vicino al fiume, e si può stare fuori a fare il bagno, non ci sono le macchine che ti svegliano di notte con i clacson.»
Ci stendiamo sull’erba fresca dei giardini, Amina si appoggia il libro sulla faccia e ride forte. Lo sposto sul prato e lei rotola via, gioca con le margherite, poi torna, dispone i fiori sulla prima pagina del libro delle vacanze, sul dorso della mia mano. Le tolgo le foglioline che le sono rimaste impigliate tra le lunghe ciocche nere. «Che bei capelli» le dico, e mentre sbircia tra i fili d’erba e se li arrotola tra le dita, mi domanda: «Gli italiani come hanno i capelli?».
Penso a come deve cercarsi, questa bambina pirata, per sempre nata tra un mare e l’altro, per sempre di nessuna parte e di tutte; le rispondo titubante che dipende; che io sono castana, che ho amiche molto bionde, che Nicola ha i capelli neri neri come i suoi.
Lei arriccia il naso, mi guarda inquieta: «Secondo te io sembro italiana?» mi chiede.
Di nuovo non ho le parole adatte, per le complesse risposte che cerca; le dico: «Ma certo. Sei nata in Italia» sperando di averla azzeccata. Che risposta vorrà, mi domando perplessa, come faccio a risponderle senza ferirla. «E poi assomigli anche a mamma e papà» aggiungo cercando parole di mezzo.
Non sembra convinta, la bambina pirata, e torna a guardare per terra. A nove anni e mezzo chissà, che risposte si dà.
Valentina Cottini