I pregiudizi e le generalizzazioni fanno male, sempre: «I due masnà» è il racconto di Mattia Scorzini

 I pregiudizi e le generalizzazioni fanno male, sempre: «I due masnà» è il racconto di Mattia Scorzini

Collage di Ottavia Marchiori

L’idea era stata di Moro, il ragazzo grosso della valle, che aveva le spalle come quelle di un orso e la barba nera a coprirgli la faccia già dai sedici anni. L’altro invece era Sergio, uno scricciolo in confronto, secco e muscoloso come uno stambecco, uno dei migliori scalatori di tutta la regione. Al paese li conoscevano perché giravano sempre insieme, bisticciando in continuazione come due fratelli che non riuscivano a stare in pace tra di loro né a separarsi. Due pargoli parevano, quando si imbronciavano, così che erano conosciuti per la valle come i due masnà.

Era da poco passato mezzogiorno, e i due se ne stavano in sosta col camioncino all’altezza dell’ultima curva sulla strada sterrata. Moro stava al volante e Sergio sul sedile passeggero, tra le gambe la borsa gialla dov’erano contenuti gli utensili necessari.

«Forse è meglio se salgo a piedi a controllare» disse Sergio all’ennesima sigaretta spenta, la quinta solo nell’ultima mezzora.

«Ma che sali? Non dir fesserie, andiamo e basta.» Moro mise in moto e salirono lentamente.

Dietro all’ultimo tornante la strada si concludeva in una radura al limitare del bosco; era dove i turisti parcheggiavano quando salivano al rifugio Rigoletti: quindici, venti macchine al giorno di media, tutte costose, di gente che al paese si comprava la casa vacanze salendo da Torino, da Milano, da Genova nelle settimane prossime a Ferragosto, e che insudiciava tutto, pisciava nei fiumi, faceva casino al bar in piazza. Moro non li aveva mai sopportati così sosteneva: anche prima della storia di Lula, senz’ombra di dubbio. Mentre Sergio era sicuro che il rancore dell’amico fosse un fatto recente, interamente attribuibile a Luigi, lo studentello milanese di Legge che aveva sfilato la ragazza a Moro come una corda rinviata male in parete.

Nello slargo c’erano dodici macchine messe fianco a fianco all’ombra degli abeti. Sergio fece due rapidi calcoli, dodici macchine per quattro ruote a macchina uguale quarantotto ruote. Con lo sfasciacarrozze giù a Cuneo s’erano detti quindici euro a ruota, quarantotto per quindici non era un calcolo che gli riuscisse veloce a mente, ma erano comunque bei soldi per quel poco di lavoro che avevano da fare.

Moro parcheggiò il camioncino di traverso alla curva, che se qualcuno fosse salito in macchina non sarebbe potuto arrivare fino al parcheggio. Su dal sentiero era impossibile che qualche turista riscendesse già a mezzogiorno. Di lì al rifugio ci voleva un’ora e mezzo di marcia al ritmo dei due masnà, almeno due e un quarto per gli altri, e tra la salita e la discesa i primi vacanzieri sarebbero tornati alle macchine non prima delle tre di pomeriggio.

«Vai» disse Moro. Si chiuse la porta del camioncino alle spalle e cominciò a scaricare i sacchi di mattoni. Sergio con gli attrezzi si era messo ad allentare i bulloni delle ruote alle vetture. Infilava la chiave a croce e la colpiva con un forte calcio per farle fare il primo giro di svitata, il resto lo si tirava via facilmente. E comunque lui aveva due avambracci che l’avrebbero portato sulla cima del Nanga Parbat, prima o poi. Figurarsi che ci metteva a svitare due bulloni. Gli stava sulle palle tutta la retorica sulla montagna che si andava diffondendo, quella massa di inetti che si legavano una corda in vita e salivano in parete senza sapere neanche come assicurarsi decentemente; imbranati con gli occhiali da sole riflettenti e i pantaloni da trekking che in estate sapevano solo intasare i sentieri e dire con entusiasmo beota: «Pensa che bello vivere qui», senza capire quanto tutto questo fosse offensivo per loro che ci vivevano per davvero, e che erano stufi marci di essere trattati come pazzi eremiti retrogradi, fenomeni da baraccone.

Fu un lavoro di un’oretta abbondante, nessuno salì dalla strada carraja a disturbarli né ridiscese dal sentiero che portava al rifugio. Svitarono le ruote alle automobili e lasciarono le macchine a galleggiare un palmo da terra sopra i mattoni scaricati da Moro. Poi impilarono nel retro del camioncino gli pneumatici, li legarono con delle corde elastiche, e li ricoprirono con un telo di plastica azzurro così che non li si vedesse.

«Se la vedranno bella al ritorno, tutti questi qua.»

Moro mise in moto e fece manovra: «La prossima volta mettiamoci d’accordo anche con un meccanico, venti euro per ogni cliente che gli portiamo».

I due masnà guidarono fino a Cuneo, dallo sfasciacarrozze che quasi non li guardò in faccia e diede loro settecento euro sull’unghia in cambio delle quarantotto ruote rubate. Erano le sei del pomeriggio quando uscirono con i portafogli gonfi e si ritrovarono sulla lunga via principale del capoluogo, con i vestiti e le mani sporche, le spalle indolenzite dal lavoro e le gambe molli per l’adrenalina.

«È quasi come scalare una montagna» disse Sergio portandosi una mano al capo indolenzito.

«Boja fauss, son distrutto

«Ci andiamo a bere una cosa?»

«Sì» rispose Moro, con l’intenzione di prendersi una sbronza disastrosa. Un po’ si sentiva in colpa, perché di gente brava che veniva nella valle ne conosceva molta, e come poteva sapere se non ce ne fosse tra i proprietari di quelle macchine là? Magari qualche povera famiglia di vecchi valligiani che ogni tanto tornava da quelle parti.

«Oè,» lo squadrò Sergio, «stai bene? Non è che adesso ti senti in colpa o cosa?»

Moro si rifugiò nella barba. «In colpa, io? Macché.»

«Ah, ho capito allora cos’è che ti prende.»

«Eh, dimmi un po’, cosa?»

«Stai pensando di nuovo alla Lula

«Alla Lula? Guarda che la Lula me la son dimenticata il giorno dopo che se n’è andata, io. Cosa pensi che ho da spartire con una che si innamora di un milanese?»

«Sì, sì… Ti conosco, io.»

Entrarono nel bar e ordinarono tante birre che quando si fece notte il tavolo era un cimitero di bottiglie.

Quando s’alzarono per l’ultimo giro l’oste li servì con sguardo triste: «Notiziaccia, eh?» attaccò  porgendo loro le birre.

I due masnà, ubriachi, si guardarono.

«Non avete sentito?»

«Non abbiamo sentito, cosa?» sbiascicò Moro.

«Nel pomeriggio, su in Valle Sura, conoscete la via al Rigoletti, sì?»

«Come no, siam di lassù noi due.»

L’oste scrollò il capo. «Eh,» sospirò, «lassù, qualche barabba ha rubato in giornata le ruote a tutte le macchine parcheggiate all’inizio del sentiero. I mattoni, ci ha lasciato al posto. Pensate che poi una bimba è scivolata su una pietraia battendo il capo e l’è morta tra le braccia del padre che voleva portarla giù all’ambulatorio ma non poteva guidare.»

Morò diventò pallido, Sergio bestemmiò.

«Lo so,» fece l’oste, «fanno uscir matti dalla rabbia, queste storie. Ma tanto lo prendono ’sto qui, senz’altro. State tranquilli ragazzi che lo prendono.»

 

Mattia Scorzini

Blam

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