La famiglia è quella che si sceglie: «Quella volta in cui i miei non divorziarono» è il racconto di Francesca Coppola
La prima volta che gliene parlai, mi disse che un libraio non poteva darmi quello che meritavo.
«Cosa meritavo io? Potevo valere più di un libro?»
Non potevo crederle. Come avrei potuto?
Lei aveva scelto come sposo un metalmeccanico. Uno che aveva preso la licenza media al serale. Uno che alla fine, comunque, sapeva mettere a stento una firma. Quando lo portai a casa accadde che a innamorarsi fu mia madre. «È un bravo ragazzo» disse.
Valevo quanto un libro, ora ne ero consapevole. E fu facile invaghirsi, perché sapeva di carta e anche di muffa come una biblioteca piccola e umida. Avevo radici piantate nella realtà, da sempre. Origini che prendevano linfa dai ricordi. L’amore era una mappa con itinerari confusi entro limiti definiti, lo avevo appreso in tenera età. In una sera, di molti anni prima, quando mia madre chiamò zia Rosa per metterla al corrente della questione.
Zia Rosa, però, non sapeva cosa fare. Lo guardava e poi guardava mia madre. Gesticolava e nel frattempo cercava di esprimere qualche parola. Lei non poteva farci niente e, comunque, non voleva. Conosceva da vicino il male che stava divorando suo fratello, lo stesso che non aveva risparmiato neanche lei.
Mia madre era ancora un’illusa. Credeva che mostrando la verità, sarebbe potuto cambiare qualcosa. Mio padre, seduto in una posizione innaturale sulla sedia coi braccioli di legno, sorrideva. C’era odore di bruciato, la sigaretta aveva bucato l’imbottitura della seduta.
La casa sembrò oscillare.
Il movimento fu impercettibile. Cambiarono il colore delle tende, il pavimento vomitò le fughe, i mobili si spostarono altrove. Le radici avvinghiarono con rabbia le fondamenta e succhiarono dalla cantina tutto il vino.
«Perché lui fa sempre così e io ho una figlia piccola.»
«E che posso farci io?, te lo sei sposato mo’ te lo devi tenere!» Mia madre fece una smorfia triste, tutto nel suo volto gridava infelicità ma non pianse. Ora aveva capito. Non c’era soluzione. Mio padre si accasciò sulla sedia, il fumo entrò nelle mie narici e prese posto fisso alla sorgente.
Riapro gli occhi e il dottore che sta in piedi davanti a me dice che può capitare. I polmoni assorbono il fumo passivo. Il lettino sul quale sono seduta oscilla. Gli occhiali del dottore diventano sempre più grandi, il computer riflette foto mai dimenticate. Capodanno, il coniglio che mi morde la mano, il sangue che scorre mentre lo appende a una corda. Il vino che cola ai bordi del letto.
«Ho il cancro ai polmoni, dunque.»
«Sì.»
«Ho venticinque anni e non ho mai fumato una sigaretta.»
«Non è l’unico caso al mondo, lo sa?»
«Mio padre fumava ottanta sigarette al giorno, aveva i polmoni bruciati e non è morto di questo male.»
«La situazione però è diversa.»
«In che senso?»
«Lei è giovane, ha polmoni o meglio aveva polmoni vergini e il fumo passivo ha trovato terreno fertile. C’è una buona notizia, proprio perché giovane possiamo aspettarci buoni risultati da un eventuale trapianto.»
«Trapianto?»
«Sì, già è in lista.»
Le radici in quel momento erano secche. Mia madre cercava dio in qualche chiesa. Io andavo ogni domenica al cimitero per versare un calice di vino sulla tomba di mio padre. Credevo che dando linfa alla bestia mi sarei potuta salvare.
E mi salvai.
Il tempo vissuto durante l’anestesia fu interminabile. Ero io coi piedi immersi in quel mare che vedevo dalla finestra della mia camera. Tenevo un diario fra le mani e come in una sorta di trance strappavo ogni foglio. Le pagine restavano a galla completamente asciutte; ne leggevo a voce alta il contenuto. Il mare si tinse di rosso e i fogli di carta mostrarono i denti, si divorarono dall’interno.
«È un miracolo» affermarono i medici, una volta sveglia.
«Mia figlia è destinata a grandi cose» disse mia madre.
Nel frattempo presi la laurea in Filosofia. La mia più grande aspirazione era diventare un’insegnante. Ingurgitavo, senza alcuna distinzione, conoscenza e alimentazione. Fu così che lo conobbi. Osmo era il bibliotecario del campus. Aveva mani grandi e sempre un po’ secche, per via del contatto con la carta stampata. Cercavo un testo sulle radici genetiche, di come una malattia potesse essere tramandata e una serie di risposte che, con ogni probabilità, non avrei mai potuto trovare in un libro. Lui, invece, mi sottopose all’attenzione un tomo che aveva sulla copertina un albero rosso. L’autore mi era nuovo e la data di edizione troppo vecchia per essere leggibile. Entrambi, nello stesso momento, portammo con l’indice gli occhiali in su e la cosa ci fece sorridere all’unisono.
Seguirono pomeriggi con incontri più o meno dichiarati fino a quando mi prese la mano e l’intero corpo rispose a un effetto elettrostatico. Diceva che un albero rosso è una pianta che sembra viva perché animata dal sangue dei suoi antenati. Ai suoi stessi occhi si sente vivido perché è in piedi e magari è affiancato da tanti altri tronchi. «Noi,» diceva, «siamo alberi rossi» perché nel nostro corpo scorreva sangue freddo, quasi incrostato. Non avevamo scelto il punto di partenza e, in fin dei conti, non aveva molta importanza se poi ci adattavamo a quelle coordinate.
Non ebbe bisogno di chiedermi in sposa. Bastò un libro. «La prima sorsata di birra» di Philippe Delerm fu anche la mia. Mi regalò un numero imprecisato di pagine bianche sulle quali fu facile scrivere ogni cosa della mia nuova vita. Le pareti grigie, il vento onnipresente, l’erba altissima per non parlare dei vicini troppo vicini. Era un’abitudine, quella di lamentarmi di tutto. Nulla mi stava bene, almeno sulla carta. La casa in cui vivevamo era un alloggio popolare, appartenuto al nonno di suo padre. Il tavolo della cucina aveva un piede realizzato con una torre di libri. Inizialmente pensai a una soluzione artistica poi compresi che si trattava di pura emergenza diventata abitudine. Utilizzavamo pile di libri per mantenere in equilibrio il televisore e distese di manoscritti al posto dei cuscini. Prima di fare l’amore intersecavamo le pagine preferite dei libri che adoravamo. Momenti in cui sentivamo i ruscelli scorrere fra le gambe e i piedi finalmente idratarsi dopo periodi di secca.
Mi convinsi, allora, che le radici potevano anche non scavare in profondità per sopravvivere. Io ero reduce di una diramazione. Lì dove c’era un masso, avevo deciso la deviazione. La terra da quel momento non oscillò più. La parte est in cui abitavamo era diventata impressionante, in modo positivo, anche se dalla finestra non vedevo più il mare. Le vie sporche erano un pretesto per dare lezioni di civiltà a studenti che non avrei mai avuto. Le foglie, in questo quartiere, cadevano più lente e allora ero in grado di prenderle al volo. I passi erano sempre un poco pesanti come piombo liquido, però riuscivo a scoprire sentieri nuovi. Le stanze erano piccole e scomode, gli spifferi onnipresenti ma questo era un incentivo per non stare mai ferma. Avevo letto da qualche parte che potevo salvare le piante con la posa del caffè. Bevevo litri di caffè per rendere il sangue più scuro e così, magari, non avrei sprecato i fondi.
Io ero diversa da mia madre. Io sarei sembrata felice.
Francesca Coppola