Una terra che è il simbolo di un mondo in dissolvenza: «L’orto» è il racconto di Matteo Ubezio
Accanto alla casa che aveva acquistato in paese dopo il matrimonio, quando aveva lasciato l’aperta campagna perché la moglie potesse godere la comodità di un vero gabinetto, Battista aveva un grande orto. Lo amava con la larghezza di cuore di chi era cresciuto fra le sterminate risaie e adesso, ormai vecchio e con i figli fuori di casa, ci andava quotidianamente per fare questo o quel lavoro. Era l’ultima postilla privata di una tramontata epica agricola.
I suoi quattro fratelli, tutti maggiori di lui, erano morti da decenni ormai, ma in mezzo all’orto Battista ritrovava con il piacere del lavoro tutto il suo disprezzo per quei fantasmi di cui sbiadivano le fotografie al cimitero. Nei fratelli vedeva ciò che sempre aveva più odiato: la fatalistica assenza di ambizione, le cose malfatte, tirate via a caso. Erano troppo vecchi, o ubriaconi o sbafatori. E presi tutti assieme erano delle bestie.
Quando stavano in cascina e le figlie dei suoi fratelli lo chiamavano zio, malgrado avessero appena qualche anno meno di lui, se gli accadeva di sorprenderle attorno al tavolo intente a un loro gioco segreto di bambine, le spazzava via come galline sull’aia: fuori di qui, zingare perditempo, baldracche sghignascente!
Era stato bello e vanitoso: nei giorni di festa si faceva ondulare i capelli col calamistro. Ma il teatro sul quale andava in scena il suo vero orgoglio puzzava forte di cavalli, di sudore e fatica. Nella calura atroce dell’estate, in una campagna senza alberi affinché il riso non avesse ombra, aveva innalzato carri di fieno enormi, debordanti oltre le sponde e vertiginosi, che barcollavano per le vie del paese fra i commenti degli uomini col mozzicone di scigàla tra le labbra.
Ora Battista era vecchio e aveva un nipote, Alessandro, al quale piaceva seguire il nonno nell’orto.
«Sandrin, vieni con me.»
«Sì.»
«Tuca gnenti.»
Andavano nel cassero dall’altra parte del cortile dove erano riposti gli attrezzi. Lì c’erano anche i conigli, i cui fruscii sulle lettiere di fieno e il furtivo sgranocchiare erano i soli rumori nella costante penombra. Una scala portava di sopra alla legnaia, dove ad Alessandro, che trascorreva ore in quel sacrario ovattato e odoroso, era proibito salire.
Battista sceglieva gli attrezzi mentre Alessandro osservava i conigli accovacciati nelle loro gabbie. Lo sguardo nero e fisso. Gli attrezzi sono sempre puliti, pensava Alessandro sbirciando con la coda dell’occhio la schiena del nonno, perché dopo averli usati il nonno li lava nella vasca dell’acqua. Anche i piedi si lava, nella bacinella sul retro della casa prima di rientrare a cena.
Uscendo dal cassero Alessandro vide il bassitalia che abitava dall’altra parte del cortile seguirli con lo sguardo. Stava fumando una sigaretta sulla porta di casa e il nonno non poteva non averlo visto ma tirò dritto senza accennare.
Nell’orto i sentieri tra le aiuole erano perfettamente lisci e sgombri d’erba, e a perdita d’occhio era un trionfo di verdure.
«Cosa devi fare, nonno?»
«Ti, pénsa mìa.»
Passando accanto alle cipolle in fiore con i loro gambi vuoti e croccanti, legati in un mazzo alto poco meno di lui, Alessandro allungò una mano e fece scorrere delicatamente le dita lungo uno dei fusti, giusto il tempo di trattenere sui polpastrelli la finissima polvere bianca che li ricopriva. Tu non pensare… tu non pensare… si ripeteva mentre sfregava il pollice e l’indice e sentiva come quella misteriosa polvere vegetale li rendesse scivolosi.
In mezzo all’orto c’era la pompa con la vasca di cemento colma di un’acqua sempre nera, fiorita lungo gli orli di algule che davano i brividi. Lì Alessandro ricevette in consegna il fascio degli attrezzi, il legno reso lustro e senza tempo dal sudore delle mani, e se ne restò impalato a qualche passo di distanza.
Battista armeggiava con la vanga su un’aiuola vergine e Alessandro osservava, cercando di interpretare le ragioni e i fini dei gesti del nonno, il quale per parte sua si limitava di tanto in tanto a uscirsene con brevi ingiunzioni come: To’, ciapa al rastél… Dàmi ’l bastón… Ciapa ’l baston, dami ’l sapin… Ciapa ’l sapin, dami la sapa… Gáuti d’int’i pée.
Non alzava mai lo sguardo.
«Oh terra, terra, dimmi che cosa sei tu per me? E io per te?»
Queste domande Alessandro poneva al grande orto chiuso tra le case del paese, che era bellissimo per lui come bellissimo era per il nonno. Ma siccome la terra girata e rigirata e la distesa di rigogliose verdure opponevano anch’esse, solidali col vecchio, un cosmico mutismo, nonostante la regola fosse che sul lavoro si rispettasse un assoluto silenzio, come a tavola d’altronde, dove si mangiava come i frati sulla minestra, con la forza della disperazione Alessandro osava infine domandare: «Perché fai così, nonno?». Soltanto per incassare l’invincibile risposta con cui il vecchio sigillava il suo amore geloso e senza accesso.
«Tì pénsa mia.»
Il vecchio lavorò il suo orto fino all’ultimo, mentre si esaurivano sempre più malinconici gli anni. Aveva accudito prima la moglie nel penoso declino della demenza e poi sé stesso in una casa rimasta vuota. Venne il momento in cui il figlio decise di prenderlo con sé. Da solo non era più in grado di vivere, non camminava quasi più, e nella casa del figlio sarebbe stato accudito da persone che gli volevano bene. Passava le ore del giorno seduto su una poltrona accanto alla finestra.
Il figlio mise in vendita la casa con l’orto e dopo qualche tempo ci fu un acquirente. Il figlio era molto premuroso per cui tenne informato Battista sulle trattative e quando fu il tempo di andare del notaio ebbe la delega dal vecchio, che da tempo non si muoveva più dalla sua poltrona. Comprava tutto il bassitalia. Anche l’orto, dove ormai sopravvivevano soltanto poche aiuole coltivate dal figlio nei fine settimana. La sera Battista gli domandava se avesse seminato questo o quest’altro, se avesse rincalzato le patate, se avesse dato l’acqua ai pomodori, diradato le insalate, raccolto i fagioli. Sì rispondeva mentendo per non amareggiare il vecchio.
Dopo che l’atto di vendita fu stipulato, Battista se ne stette per diversi giorni ancora più muto ed ermetico accanto alla finestra, con gli occhi grigi fissi su qualcosa che stava al di là di quanto il paesaggio di fuori offrisse. Passavano le biciclette di chi andava alla stazione a prendere il treno. Poi un giorno in cui per casa non c’erano il figlio né la nuora, il vecchio chiamò Alessandro.
«Sandrin, vieni qui.»
Alessandro aveva undici anni.
«Adesso tu fai lo stesso che ho fatto io alla tua età quando ci siamo trasferiti dalla cascina Risi alla cascina Nuova e mio papà ha venduto il campo dietro la casa. Ascolta bene. Avevamo venduto la terra, non quello che ci cresceva sopra. Allora, la notte prima di partire, senza dire niente a nessuno sono andato nel campo e ho tagliato tutte le piante della vigna. L’ho tagliata al piede. Poi siamo partiti. Hai capito? Tu non dire niente al papà. Vai nell’orto e porti via quello che c’è da prendere. Non farti vedere. Poi prendi il diserbante e lo dai dappertutto.»
Matteo Ubezio