Come si sopravvive alla depressione? “I limiti del mio linguaggio” è l’ultimo saggio di Eva Meijer. Recensione

 Come si sopravvive alla depressione? “I limiti del mio linguaggio” è l’ultimo saggio di Eva Meijer. Recensione

I limiti del mio linguaggio (nottetempo, 2024) è un saggio che esplora la depressione attraverso una lente personale e intima, quella di Eva Meijer che ne soffre da più di 20 anni. Breve e diretto, il libro è un’indagine che combina esperienze personali a considerazioni di tipo filosofico e che offre una prospettiva onesta sulla malattia mentale.

«Il linguaggio, la porta di accesso per interpretare la realtà, non è un sistema infallibile».

I limiti del mio linguaggio di Eva Meijer: di cosa parla il libro

In I limiti del mio linguaggio Eva Meijer ha condensato le sue riflessioni rispetto alla depressione che l’accompagna dall’età di 14 anni. Si serve del suo vissuto, racconta della sua esperienza con l’anoressia, del suo ricovero in una clinica specialistica a Leidschendam, del rapporto con i farmaci, ma anche di brani letterari come, tra gli altri: Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, La donna che trema di Siri Hustvedt e Saggi di Michel de Montaigne, analizzandoli per cercare di dissipare alcuni preconcetti su una malattia per molti ancora inconcepibile. In questo saggio ritroviamo, pure nel mare di citazioni, i «limiti» che la depressione comporta, poiché «le depressioni influiscono sul cervello […], se non lavora come dovrebbe, insorgono mancanza di interesse e di concentrazione, disturbi del pensiero, sentimenti di tristezza e disperazione».

Il colore grigio

«Grigiore che risucchia tutto il colore finché non ne rimane che un ricordo».

Questo saggio non solo si focalizza su come affrontare la depressione attraverso terapie e farmaci, ma esplora anche come dovrebbe essere trattata dal punto di vista del linguaggio. Si allontana, senza presunzione, da chi descrive questo disturbo con similitudini banali, come: «un nemico invisibile», «un tunnel senza uscita» o «un macigno che opprime il petto». La depressione non è «una presenza», bensì «un’assenza», un posto vuoto dove tutto perde definizione, dove nemmeno il bianco e il nero colori spesso utilizzati per descrivere una depressione esistono più. L’autrice si sofferma anche sul significato della parola «lotta» utilizzata come metafora per la malattia, mostrandone l’inadeguatezza, perché addossa al malato la responsabilità di guarire; «spesso invece, che tu sia malato, guarire o meno non dipende da te». Si può essere seguiti da un terapista, assumere farmaci, fare tutte le cose per bene e restare comunque molto infelici. Ovviamente non tutte le metafore usate per descrivere questa malattia sono inutili. Per esempio, l’autrice definisce la depressione come «lutto» che potrebbe esserne la causa , inteso come perdita della realtà, perdita di punti di riferimento.

La scrittura di Eva Meijer in I limiti del mio linguaggio

«Una fine. Un cunicolo, un mondo dentro un mondo (un sé dentro un sé), pensieri che come giovani cuculi si infilano in un nido di altri pensieri e buttano giù, spietati, i fratelli adottivi sani, un’ombra che è sempre lì, anche nella luce, una conferma, una verità, un’illusione, sabbia pesante sul lembo di terra che si trasforma in mare, una muffa che insinua ovunque le sue spore».

Sebbene faccia riferimento alle sue esperienze personali, Meijer riesce comunque a mantenere un certo distacco e una certa obiettività, rendendo il testo divulgativo e formativo sia per chi vuole solo conoscere meglio questa malattia, sia per aiutare chi già ne soffre. Infatti, Meijer cita modi – quelli che hanno aiutato lei – per sopravvivere alla depressione: adottare una disciplina e non lasciarsi sopraffare dal grigiore, continuare a svolgere – anche se con maggiore lentezza – attività quotidiane, come fare passeggiate o prendersi cura di qualcuno; un animale domestico, per esempio, nonostante possa sembrare una seccatura fare qualsiasi cosa quando la terra sembra attirarti a sé con più forza del solito.

«Coltivare buone abitudini può anche essere una forma di resistenza nei confronti di quanto ci accade, paragonabile a ciò che Foucault definisce le pratiche del sé: non terapia ma etica, migliorarsi per necessità».

 

A cura di Roberta Mancini

Roberta Mancini

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