Cosa succede se non sappiamo più ascoltare la natura? «Lì, dove cantano le cicale» è il racconto di Jacopo Ferri
Bambino la sentiva cantare dal bosco, tutte le sere. Succedeva da quando Nonno gli aveva raccontato questa storia che, a sentirla, suonava come una leggenda e iniziava così: «Esiste un luogo, un luogo segreto, in cui puoi sentire le piante e gli animali parlare tra loro, nascosti tra le foglie e le cortecce degli alberi secolari. E confidarti, e chiedergli consiglio, e imparare ad ascoltare».
Questo gli ripeteva, Nonno, in quelle notti davanti al camino. E ogni volta che Madre si avvicinava, Nonno abbassava la voce, faceva l’occhiolino a Bambino, e poi rideva, poco dopo, rideva, nel vederlo correre alla finestra: silenzioso, sulle punte, a guardare il bosco lontano nella notte.
«Quando la smetterai di far paura a tuo nipote?» lo rimproverava Madre, e Nonno faceva un gesto con la mano, come a dire lascia stare, come a incolparla per aver smesso di ascoltare. Madre provava a giustificarsi, diceva che in città era diverso, era impossibile, che in un luogo con troppi rumori non c’è niente da ascoltare; ci sono i brusii e i clacson delle mattine affrettate, le urla e i richiami di chi si è perso, ci sono i discorsi lasciati a metà di chi se ne va lontano, oltre i muri e le strade. Allora Nonno smetteva di parlare, poggiava le spalle sullo schienale della sedia e iniziava a dondolare. Bambino trascorreva il resto della serata con il mento poggiato sul davanzale della cucina, in silenzio. C’era qualcosa nel bosco. Di questo ne era convinto.
Il paese era distante alcune ore di macchina dalla città. Quando era estate e la scuola finiva, i genitori vi lasciavano Bambino per alcune settimane in compagnia dei nonni anziani. Bambino trascorreva le giornate estive, così, in giardino, a catturare mosche e a cercare, tra tutti, il bastone migliore: il castagno più resistente; l’acero che fa le foglie rosse; e il cipresso, laggiù, fermo e dritto oltre il ponticello. Con le sue radici profonde e i rami aguzzi che sembravano abbracciare il mondo intero, dall’alto in basso, in un istante solo. Ci si avvicinò una sera, per guardarlo da vicino, prima di avventurarsi nella selva, quando, a furia di ascoltare il bosco, gli era sembrato davvero di sentire un canto innalzarsi libero tra il frinire delle foglie d’agosto, un canto com’è quello delle cicale, più simile a un richiamo.
Così, quella notte fece questo: si infilò le scarpe alla buona e uscì da solo, attento ad accostare la porta piano per non svegliare nessuno, e corse verso il ponticello, lo attraversò, e poi il cipresso, alle spalle, e infine il bosco, tutto, davanti a lui. Come un avvicendarsi di sogni e sentieri, opportunità, gioie e paure aggrovigliate, tra cespugli e rami, corvi e lumache, gufi e lepri, a ogni passo più vicino. A ogni passo: euforia.
La vide per la prima volta appena dopo, abbandonato il sentiero principale: una radura di un altro mondo, dai colori vivi, come non lo era il mondo di là, un mondo che un giorno Bambino avrebbe scoperto ormai prossimo a spegnersi, a morire e a non rinascere più. Questa radura, invece, era di un verde brulicante di vita, persino di notte, fulgida e muschiosa, infiammata qui e là dai papaveri turgidi. Questo era il luogo in cui le cicale facevano la muta e poi volavano via, vive, senza smettere di cantare, a dispetto di qualsiasi legge, libere, solo libere di cantare. Con il guscio lasciato lì, in quello spiazzo, come un involucro vuoto, prima di dissolversi nella notte.
In mezzo a quei corpi senza corpi, Bambino si sdraiò, con gli occhi che gli si fecero subito pesanti, e presto, molto presto, si ritrovò a dormire. In un sonno profondo e senza sogni.
Al suo risveglio, ancora notte, animali di ogni specie e forma lo guardavano curiosi. E fu spaventato, in un primo momento, spaventato, di certo. Ma poi, non si sa perché, nel guardarli, quegli animali, si sentì al sicuro. E alcuni presero a parlare fra loro e con lui, insieme; ad avvicinarsi, offrendogli bacche e pezzi di frutta, noci; gli animali, lì, a parlare con le piante, e non solo, in una festa intera che durò una notte. Una notte e basta. E al mattino niente.
Bambino tornò a casa che l’alba era sul punto di alzarsi tra le foglie. Ritrovò il sentiero dove l’aveva lasciato e lo percorse a ritroso, superò il cipresso dai rami aguzzi e le radici profonde, e attraversò il ponticello poco prima dell’abitazione. Da quel momento, Bambino iniziò a visitare il bosco regolarmente. C’erano notti in cui sgattaiolava silenzioso oltre la porta d’ingresso, per tornare poco prima dell’alba e rinfilarsi svelto sotto le coperte calde con addosso ancora l’odore dei rami, della resina amara dei faggi, del pelo terroso degli animali, e in testa il linguaggio del bosco, le sue storie. Le sue storie, sì, quelle del mondo e di tutti gli inizi.
Poi, quando l’estate finiva, salutava il bosco lasciando oltre il cipresso solo un guscio di noce. Un guscio vuoto, come quello lasciato dalle cicale, prima di alzarsi in volo e cantare. E subito, quando svaniva oltre il ponte, qualcuno veniva a prenderlo, quel guscio, e se lo portava via. Tra la corteccia e le foglie calde che si preparavano all’autunno. Era un animale, forse, quel qualcuno. O una pianta, magari. O una donna.
Una donna, sì, una donna!
Eppure, nessuno l’aveva vista mai, quella donna. Ma Bambino la sentiva cantare.
Saliva al paese in estate e certe volte pure in inverno. Con i genitori che, prima di tornare in città, gli dicevano di stare attento e non allontanarsi da solo. Ma lui li ignorava, e via!, subito, a camminare sui monti, dritto nel bosco, non appena ne aveva l’occasione. A salutare gli amici, a chiedere consiglio. A cercare Lei, tra le piante. Lo aveva fatto ogni volta, come in un rituale, a ogni sua muta, per lasciare l’involucro di bambino e diventare adulto. Adulto, anche lui. Prima di un nuovo anno scolastico. Della scelta dell’università. Di un lungo viaggio che lo avrebbe portato all’estero, da solo, per un anno intero. Del primo giorno in affitto, con una casa da pagare, e un lavoro col contratto. Entrava nel bosco e la cercava. La cercava. O forse era Lei a cercare lui. Anche quando Nonno si ammalò e venne portato di fretta in ospedale, in città. Lontano dal bosco che lo faceva stare bene. E allora Bambino, che era Uomo ormai, prese la macchina e andò a piangere, lì, nel bosco, in cerca di consiglio. Tra le piante e gli animali che parlavano, sovrapponendosi l’un l’altro, abbracciandolo. Per poi tornare in città con un insegnamento nuovo. Come ogni volta, un insegnamento nuovo: «Ma il nonno, tesoro, purtroppo il nonno non ce l’ha fatta…» e lo sapeva, lui. Lo sapeva già.
Agli anni si sommarono altri anni, altri insegnamenti, altri abbandoni. E il bosco restava lì, seppure più piccolo, striminzito, soffocato dall’irrefrenabile avanzare delle case, dei punti turistici, dei benzinai, e dal crescere costante della città sulla valle. Al punto che un giorno, Uomo, preso dal terrore di perdere i suoi amici, propose agli animali di fuggire con lui. Di scappare via, in città, e partire lontano. Ma loro rifiutarono, all’unisono rifiutarono, dicendogli che non era più un posto per loro, quello laggiù. Non era più un posto per Lei. Che gli umani l’avevano costruito su misura per tenerla lontana. Aveva pochi posti, ormai, in cui poteva vivere. E poche persone, come lui, a mantenerla in vita. Così, Uomo faceva avanti e indietro, ogni volta, per salutarli appena, i suoi amici, e camminare, e addormentarsi tra le foglie, come aveva sempre fatto.
Arrivò il giorno che Uomo divenne Padre. Alla prima occasione portò Figlio nel bosco a presentarglielo, così: fragile, neonato, di nascosto. Che con Moglie non ne aveva mai parlato, di tutto questo, non ne aveva parlato mai. Non perché non si fidasse, è chiaro. Ma perché non tutti sapevano ascoltare, sapevano mantenerla in vita.
Con una famiglia da crescere e accudire, Padre iniziò ad andare al paese solo di tanto in tanto. Quando era libero dagli impegni, dal lavoro, dalla cena con gli amici. Sempre di sfuggita, tra una scadenza e l’altra, sempre più lontano; con le piante, gli animali e il bosco tutto, sovrastati dai clacson, dal ronzio delle marmitte, dal bip delle casse automatiche dei centri commerciali. E gli sembrò assurdo, davvero assurdo, che si fosse scordato del civettare notturno, dello zampettare delle lepri nell’erba alta e delle loro voci: così diverse, uniche, incredibili, ognuna diversa e unica a sé stessa. E il canto di Lei.
Quando Padre divenne Nonno, arrivò alla fine il tempo del riposo. Dell’assenza dagli impegni, delle serate sulla sedia a dondolo in paese, sotto il porticato, come per suo nonno prima di lui. E davanti al bosco, improvvisamente, davanti a quello che era rimasto del bosco, sentire una voce.
All’improvviso, sentire una voce.
Dal suolo, dal cielo, e camminare zoppicante, ansioso, camminare nella selva. Timido, curioso, con il bastone in mano. Una voce. Che gli diceva di andare, vicino, oltre il cipresso. In quello spazio sconfinato ormai povero, ridotto a un niente. Una valle, degli alberi, pochi animali: una manciata. Tra il cantare delle cicale.
Si addentrò in quel bosco, di nuovo, tra le voci che aveva perduto, e i ricordi del bambino che fu, ed euforia, e gli amici di un tempo, ancora lì, a sovrapporsi con le parole, ad abbracciarlo, come se non fosse passato un giorno, un misero giorno, là dentro.
Invece che una vita, per lui. Una vita intera.
Ora Nonno sedeva sulla sedia a dondolo, in giardino. La teneva rivolta verso il bosco, in silenzio. Ogni tanto i nipoti venivano a trovarlo, allora lui gli raccontava di un tempo in cui piante e animali parlavano tra loro e si potevano sentire. Lì, dove le cicale andavano a cantare.
«E smettila con queste storie che spaventi i bambini!» lo rimproverava Figlio, che ormai aveva disimparato ad ascoltare. E Nuora, invece, più coraggiosa, lo lasciava fare. E i bambini ridevano, saltavano, si incuriosivano, e si avvicinavano al bosco con le orecchie tese a fare scherzi, tra loro, scherzi, giocare, con le orecchie tese, ma le voci, loro, le voci non le sentivano più. Neanche loro, ormai, quella voce la sentivano più.
Nonno morì in silenzio, una sera d’estate, sulla sedia a dondolo davanti al camino spento. Fu sepolto dalla famiglia all’ombra del cipresso, subito dopo il ponticello. Lì, proprio lì, dove adesso del bosco non restava che un involucro vuoto, c’era la tomba dell’uomo che un tempo era stato Bambino e che aveva saputo ascoltare. Fu su questa tomba che la mattina seguente venne trovata la terra smossa con un guscio di noce poggiato sopra.
Nessuno seppe mai chi fu a portarlo, quel guscio. Ma c’è chi dice di aver visto, quella notte, di aver visto, lì vicino, venir via una donna. Una donna venusta e spoglia, con i capelli di fiamme, e terra. Di animali feconda, intorno, e versi, e voci. Che danzava, disperata, tra le foglie e le cortecce degli alberi secolari; sulle labbra un canto, sussurro tragico: nenie antiche, sconosciute ai più. Con gli occhi grandi, fulgidi e muschiosi, e lustri di lacrime.
Un guscio di noce, nascosto, in mano.
E da quel giorno, il bosco divenne muto.
Jacopo Ferri
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Un racconto commovente