Andarsene e invece restare: «La valigia» è il racconto di Leonardo D’Isanto
Trovai l’uscio socchiuso. Lo spinsi ed entrai nel salone buio.
«Seba, sei tu?» La voce di Ginevra riecheggiò dal fondo del corridoio: «Parliamo qui. Lì c’è la porta d’ingresso».
La ritenni una risposta valida. Entrai in cucina, afferrai due bicchieri e una bottiglia di vino senza tappo. Poi, con la mano libera, trascinai la valigia fino alla camera da letto. Per ripassare da casa non c’era stato modo, troppo poco il tempo.
«Cosa volevi dirmi di tanto urgente?»
Ginevra si versò il vino e mi lanciò un’occhiata.
«Quanta voglia hai di scoparmi oggi?» disse, portandosi il bicchiere alla bocca.
L’incenso soffocava la stanza. C’ero cascato di nuovo e non me ne capacitavo. Quella donna godeva nel trarmi in inganno e io ero lì col desiderio di eliminarla dalla mia vita. Cercavo invano di codificare il suo atteggiamento, ma mi resi conto che quella Baby Jane in miniatura altro non era che una donna insoddisfatta della vita, con l’infelicità sul punto di farla cadere. Aveva un solo desiderio: trascinare anche me nel suo dirupo emotivo. La mia libertà in cambio del suo corpo perfetto, da qui all’eternità. Anche se quella volta feci una cosa che la mandò in bestia: temporeggiai.
«Si può sapere che sei venuto a fare allora?»
Respirava affannata, come se qualcosa di vivo le spingesse il torace, smanioso di uscire.
«Credevo avessi capito. Credevo conoscessi le mie esigenze.»
«Penso d’aver sempre interpretato bene le tue esigenze, non credi?» risposi pacato, depositando la mia valigia dietro la porta.
«Ma qual è il problema? Non mi trovi più attraente o cosa?»
Non aveva capito nulla, oramai mi era chiaro. Eppure era tutto così eccitante.
«Ho ragione quindi? Non ti piaccio più?»
Mi mancava tanto così, tanto così, dal liberarmi per sempre di quella donna che, proprio quando pensavo d’aver trovato il coraggio, capii quanto significasse per me. Da una parte Ginevra, la quarantaduenne perfetta, seppure indifesa e fragile come mai avrei pensato; dall’altra io, un insignificante studente universitario, distante anni luce dal suo firmamento. La faccia tremante di Ginevra era lì che chiedeva risposte, quando un cigolio risuonò nella sala d’ingresso e la serratura della porta scattò.
«Cos’è stato?» bisbigliai.
Non riuscii a muovermi. Era finita. Stavolta mi avrebbe spaccato la testa.
«Dai cazzo, va’ sotto il letto.»
Pareva facile, che si sa: a un problema ne segue sempre un altro, e io lì sotto proprio non c’entravo. Una schiera di scatoloni assediava il pavimento e mi impediva il passaggio. Così, mentre io tentavo la salvezza, Ginevra si era sistemata sul letto, pronta a recitare l’ennesima commedia.
«Non c’è posto qui» dissi, intanto che un tamburellare di passi si faceva via via più distinto per poi arrestarsi di colpo.
«Trovalo.»
Con un calcio feci scivolare i contenitori sul parquet. Ero tornato in quella casa con le migliori intenzioni, per deporre le mie vesti di amante, ma ecco profilarsi un epilogo tutt’altro che previsto: morire per mano di un marito geloso. Fino all’ultimo avevo creduto che Ginevra volesse farla finita; chiuderla una volta per tutte con me e i nostri incontri, ma mi sbagliavo. Era riuscita a fregarmi, di nuovo. Io ero la scarpa, e lei il laccio che mi bloccava. Sempre più aderente, sempre più tirato.
Giacevo a terra supino, con le braccia conserte come un morto nella bara. Pregavo il Signore mio Dio di farmi uscire vivo da quelle quattro mura, con la pelle ancora sulle ossa. Poi, d’un tratto, pensai alla valigia, e raggelai. Impossibile non vederla. Era proprio lì, stagliante in tutta la sua bruttezza. Mi ero fregato da solo, come un cacciatore che, dopo aver posizionato la tagliola, se ne scorda e ci mette dentro il piede.
La porta si aprì e una voce grave salutò Ginevra che accarezzava con le gambe le coperte.
«Ancora Tenco?» disse lei, con una tranquillità che trovai assurda. «Sono vent’anni ormai. Cambia canzone» aggiunse, con un po’ di malinconia.
«Da quando in qua accendi l’incenso senza di me?»
«Solo quando sono stanca» disse lei, tutta smielata.
«La mia strega dai capelli rossi» disse la voce. Una voce che, in un attimo, mi parve familiare.
Il letto si affossò, rasentandomi la fronte, poi, un rumore di labbra che schioccavano. Con le tempie sulle mattonelle fredde, guardavo terrorizzato le ruote del mio trolley. Alzai gli occhi: un piede penzolava dal letto, o meglio una scarpa da ginnastica. Non una qualsiasi scarpa da ginnastica. Una Air Jordan 1 Legends of Summer Red, di un rosso fiammante, scarpe introvabili al costo complessivo di euro 5480. Le conoscevo bene, quelle scarpe. Ne aveva un paio uguale Samuel, il compagno di mia madre. «Sono passato giusto per posare la valigia, ma devo tornare in negozio.»
«Come al solito» disse Ginevra.
Cercai lo scatolone più vicino e con una mano sollevai un lembo. All’interno c’erano solo dischi. Più precisamente vinili. Samuel era ossessionato dai vinili.
«Torno verso le otto, ok?»
«Ok.»
«Buon riposo» disse, chiudendosi la porta alle spalle.
«Sei morto?» irruppe Ginevra da sopra il letto.
Per la prima volta stavo provando sulla mia pelle il vero significato della paralisi. Ero arrivato più volte alla conclusione che l’eccessivo pensare potesse in qualche modo fungere da paralizzante. Non un paralizzante qualsiasi, bensì uno dei più potenti mai esistiti. Il cervello s’impappina e i neuroni si scoprono incapaci di agire. Decomposizione interna e immobilità.
«Non è strano?» disse Ginevra. «In un modo o nell’altro finisco sempre per ritrovarmi sopra di te.»
Mi sentivo protetto nel mio nascondiglio. Non volevo fare i conti con la realtà. Quella non poteva essere la realtà.
«Seba tranquillo, è andato via» disse, preoccupata dal pallore del mio viso una volta sgusciato fuori.
Osservai la porta chiusa, poi posai gli occhi sulla valigia che Samuel era solito portarsi in giro. Nulla a che vedere con la mia vecchia Samsonite, tutta sdrucita e senza più guarnizioni attorno alle ruote. Quella di Samuel era un regalo di mia madre, un trolley in alluminio che aveva pagato un occhio della testa per il loro primo anniversario, come del resto aveva pagato quelle Jordan di merda. Loro due abbracciati e sorridenti su un traghetto per Procida: è questa l’immagine alla quale pensai. Un’immagine che è pure una foto scattata e che testimonia la gioia ritrovata di mia madre. Una gioia annegata nel dolore per mio padre e la sua morte, e riemersa grazie a quel parassita. Cosa avrei dovuto fare? La prova che non si fosse trattato di un incubo era proprio lì, davanti a me. Eppure non mi capacitavo di come avessi fatto a scamparla e a non sentirmi comunque alleggerito per questo. Su di me gravava adesso il peso della confessione: dovevo o non dovevo dire a mia madre di Samuel e Ginevra? E Ginevra? Lei cosa sapeva?
Mi voltai verso di lei per renderla partecipe del mio dilemma, quando il solo guardarla mi consegnò la verità. Riconobbi quella donna per ciò che era: una maliarda statuaria intrisa di potenza e splendore. Di colpo, ogni mia afflizione svanì, assorbita dall’incenso così intenso da riconsegnare ciò che avevo appena saputo all’oblio, al non ricordo, all’immobilità. Ero calmo.
«Mi stai facendo preoccupare. Sei sicuro di stare bene?» chiese lei.
«Sì,» risposi flebile, «è solo che è la prima volta che mi capita.»
«Vieni qui» disse, trascinandomi sulle coperte. Mi baciò le tempie. Chiusi gli occhi. Respirai.
Leonardo D’Isanto