Una scrivania di famiglia si fa geografia dei ricordi: «La scrivania» è il racconto Sara Salviani

 Una scrivania di famiglia si fa geografia dei ricordi: «La scrivania» è il racconto Sara Salviani

Luca Moretti – Illustratore AI

Sposto la conchiglia rosa, quella che ho portato dall’oceano. La avvicino all’orecchio, si sente il mare. Cerco di ricordare quando questa storia del mare nelle conchiglie mi è stata raccontata, chissà se è toccata a tutti i bambini sentirla, anche a quelli di città, o solo a noi che sulla costa ci siamo cresciuti.

Mia madre si affaccia dalla cucina: Ho buttato la pasta, dice, Fai lavare le mani ai bambini. Allontano la conchiglia dall’orecchio e la poggio nel punto in cui era prima, dove ha formato sul cuoio un contorno più scuro, una sorta di avvallamento, una zona d’ombra dove la polvere non si posa e il sole non arriva. Anche le zampe dell’elefante indiano hanno formato impronte sul cuoio e così la ruota di preghiera tibetana. Questa scrivania l’hanno portata in paese i tedeschi durante la guerra, diceva mio padre, Chissà in quale casa l’hanno presa, a quale gente è appartenuta. E metteva enfasi nella voce, come chi da sempre ama raccontare storie.

Bimbi a lavare le mani, dico. E intanto apro la scatola lunga che ho di fronte, quella con la scritta cinese sopra che non so decifrare. Bambini guadate questo pennello cinese, l’ho portato al nonno da un viaggio. Non mi ascoltano. La memoria per loro è solo il presente, non sentono ancora la responsabilità e la nostalgia di altri tempi, né del passato né del futuro.

C’è stato un periodo in cui viaggiavo parecchio e al ritorno da ogni viaggio era come un grande Natale; gli oggetti esotici erano al centro di una contesa: Questo è mio, diceva mio padre e lo stringeva al petto. E io: Lascialo, quello è mio, mi piace troppo. Lo rincorrevo per la casa. Ora si rompe, lascialo. È mio, è mio, diceva lui. E rideva, fino a quando sconfitta lo osservavo sistemarli sulla scrivania. C’era in lui qualcosa di fanciullesco e indomabile, ma anche di ruvido e coriaceo al tempo stesso. Era una di quelle persone che sognano, che percorrono il mondo reale con addosso una sorta di rassegnazione.

Mamma mamma, ho fame. Mi ritrovo addosso i bambini. A lavare le mani su, dico. E loro corrono verso il bagno spingendosi e urlando.

A volte mio padre ballava in casa con mia madre. Vieni, diceva a un tratto e mi tirava da una mano. Gli calpestavo i piedi e lui mollava la presa, Tu saresti quella che ha fatto danza, diceva. E io ogni volta a spiegargli che la danza classica e quella moderna sono cosa diversa dal ballo da sala, ma lui arricciava il viso spazientito, anche se secondo me quella differenza la sapeva eccome.

A volte era brusco, mio padre, come se non avesse tempo e pazienza, come se alcune cose costituissero per lui un’offesa a cui gli altri erano chiamati a rimediare. Che libro hai comprato?, mi chiese una volta, indicando la busta della libreria, io appena adolescente. Tirai fuori dal sacchetto un libro dalla copertina colorata, di una scrittrice anglofona, quei libri per ragazzi dove i protagonisti si chiamano Tim e Nancy. Lo girò tra le mani e lo lasciò cadere sul tavolo.

Questi devi leggere, disse. Tirò fuori dalla libreria due volumi, Delitto e castigo di Dostoevskij e Il vecchio e il mare di Hemingway e me li consegnò, poi andò a sedersi alla scrivania, con il viso contratto e severo. A ripensarci adesso provo ancora lo stesso senso di inadeguatezza che provai in quel momento. Ma anche la rabbia che mi accompagnò nei giorni seguenti. Mio padre aveva fatto il geometra e poi si era trovato un lavoro. La bellezza del mondo l’aveva appresa da autodidatta.

Alla tv parte una canzone, i bambini ballano, fanno mosse viste nei film o chissà dove. Mia madre arriva dalla cucina, Ti ricordi quando papà ti portava al corso e ti diceva che si sarebbe messo a ballare in mezzo alla strada, come ti arrabbiavi. Sorrido. Non ricordo questa scena, che a detta dei miei si sarebbe ripetuta più volte quando ero bambina, ma la sua narrazione mi accompagna da sempre e nella pancia ho ancora il timore della vergogna, quello che i bambini provano per i propri genitori.

Apro il cassetto di destra. Vecchie bollette, fogli scritti a penna, la sua calligrafia pendente da un lato. È tutto come prima, nulla è stato tolto, nulla aggiunto su quella scrivania dove accavallava i suoi silenzi.

Mi giro, prendo un volume antico dalla libreria, un’edizione di La vergine delle rocce di Gabriele D’Annunzio del 1903. Faccio scorrere tra le dita le pagine ingiallite, appare una foto, una squadra di nuoto, mio padre è quello in ginocchio a sinistra. La giro. Modena, estate 1958. È scritto a penna con l’inchiostro blu sbiadito e la calligrafia obliqua. Mamma posso prenderlo? Non mi sente, armeggia con piatti e posate. Lo metto vicino alla borsa così prima di andare via non dimentico di chiederglielo.

Apro l’altro cassetto, un foglio ingiallito, uno schizzo di una casa con un porticato su un lato e alberi intorno. Quando ero bambina mio padre mi portava in giro per le campagne circostanti. Facciamoci un giro in macchina, indossava la giacca e mi faceva segno di seguirlo. Cercavamo case, quella sul colle, intonacata di giallo, quella laggiù nella valle, in pietra. Un giorno compreremo una casa in campagna, diceva. Poi al ritorno la disegnavamo, la nostra casa nel verde, col porticato, le vetrate e il viale alberato che conduceva all’ingresso.

Forza, a tavola. Mi madre ci chiama dalla cucina, i bambini corrono a sedersi. Io dove mi siedo? Mia madre fa un cenno col sopracciglio; è concentrata sui piatti di brodo fumante che sta portando a tavola. Si muove a passi piccolissimi per non far cadere dal piatto il liquido bollente che ha versato fino all’orlo. Siediti al posto di papà.

Il vapore sale dal piatto, mi entra nelle narici, mi acquieta. Il brodo di mia madre ha un odore morbido e avvolgente, sa di televisione in sottofondo, di sedie che si spostano, di vetri appannati, di casa. Non come quello degli ospedali, che sa di silenzio e di morte.

Chiudo gli occhi e accarezzo la sua testa canuta. Domani mi operano ed esco. Lo dice con voce sicura, ma io ci leggo un’affermazione che nasconde una domanda, una richiesta di rassicurazione, mentre il liquido scorre nella flebo. Ora dormi papà, gli dico. Ci vediamo domani.

Inspiro ancora il vapore caldo. Metteteci il parmigiano, dico ai bimbi.

Mi viene da ridere, mi trattengo. Chi se ne frega, mi lascio andare. Mamma che c’è? I miei figli mi guardano incuriositi, ridono con me, come fanno i bambini, per il gusto di ridere, che tanto un motivo per essere felici si trova sempre. Niente, rispondo. Invece sto ripensando alla passeggiata di questa mattina. Abbiamo comprato le paste e poi siamo scesi giù per il corso fino al borgo antico. Loro correvano e parlavano ad alta voce di cose loro da bambini. Ogni tanto, presi dal loro gioco, urtavano qualcuno.

Se non la smettete mi metto a ballare, ho detto a un certo punto. Mi hanno tirato da una manica, si sono avvinghiati a me per bloccarmi nei movimenti. Non ci provare mamma, mi hanno intimato severi e spaventati, guardandosi intorno con circospezione.

Rido. Se non mangiate tutto, la prossima volta che usciamo mi metto a ballare per il corso.

Mia madre congiunge le mani a mo’ di preghiera, ride anche lei, ridiamo. Ora il brodo è meno caldo, possiamo mangiare.

 

Sara Salviani

Blam

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