Formichità di Charlie Kaufman: un viaggio di 700 pagine nell’inconscio, alla ricerca di un film perduto
Formichità (Einaudi, 2023) è un romanzo di oltre settecento pagine. Non si tratta soltanto di leggere un libro molto lungo, ma di immergersi in un’esperienza. Chi conosce Kaufman per i film che ha scritto (Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee, Se mi lasci ti cancello) e che ha diretto (Synecdoche, New York e Anomalisa), sa che deve essere pronto a tutto, poiché nelle sue narrazioni non c’è nulla di ordinario: le norme convenzionali non hanno validità, ad esempio, la forza di gravità potrebbe perdere la sua efficacia. Decidere di affrontare qualsiasi opera di Kaufman implica abbandonare l’idea di preservarsi, poiché con lui al timone è facile perdersi nel pensiero e nella memoria. Accettarlo per settecento pagine è un’impresa alla quale solo le coraggiose e i coraggiosi possono ambire.
Formichità di Charlie Kaufman: la trama del libro
«Non riesco nemmeno a ricordare chi ero prima che il mondo mi afferrasse e, mettendomi contro me stesso, mi trasformasse in questa… cosa». Il protagonista, B. Rosenberger Rosenberg, un acuto critico cinematografico, è definito dalle sue negazioni: non è ebreo (a dispetto del cognome), non è razzista, essendo fidanzato con una donna afroamericana, non è dotato di bellezza né di fama, e soprattutto, non è felice. Un giorno, la sua vita si scontra con l’opera di Ingo Cutbirth, un regista che ha dedicato tutta la sua vita alla realizzazione di un film d’animazione in stop motion della durata tre mesi. B. Rosenberger Rosenberg ne rimane folgorato. La morte repentina dell’attempato regista gli regala un nuovo motivo per vivere: far conoscere al mondo l’opera di Ingo Cutbirth. Ma uno sfortunato evento distrugge l’opera. Da quel momento, il protagonista, che emerge dopo mesi di coma dallo stesso incidente, si impegna in un nuovo obiettivo: deve recuperare dalla sua mente l’unico luogo in cui potrebbe ancora essere il film di Ingo. Il suo compagno in questa ricerca è Barassini, un ipnotista dalla dubbia professionalità, che durante le sessioni di ipnosi guida B. Rosenberger Rosenberg a esplorare il suo inconscio.
La commedia dei bianchi e gli invisibili
«Ci hanno nascosti. Non solo i negri, ma i pazzi, gli infermi, gli indigenti, gli abietti, i criminali. Ci fanno vivere nei bassifondi, nelle prigioni, negli istituti, in accampamenti. Ci hanno nascosti alla vista, puntando i riflettori solo sulla commedia dei bianchi. Mi sono dato il compito di mettere uno specchio davanti alla società; purtroppo, però, gli specchi riflettono solo ciò che è visibile. Così fa anche la mia macchina da presa, ma questo non significa che l’Invisibile cessi di esistere. È semplicemente fuori campo. Quindi animerò anche gli Invisibili, tutte le vite che vanno e vengono inosservate. Le animerò, le ricorderò, ma non le riprenderò. In questo modo la mia cinepresa sarà il più veritiero degli specchi, e il film rifletterà il mondo come nessun altro ha saputo fare».
I taccuini lasciati da Ingo Cutbirth sono l’unica esegesi che rimane a B. Rosenberger Rosenberg dopo la morte del regista. Il protagonista vi ritrova le volontà, che il regista aveva espresso in conversazioni privatissime, prima che la proiezione avesse inizio. L’intento di Ingo era realizzare un film che fosse la rappresentazione del mondo e che quindi ne replicasse luci e ombre. Nella luce, «la commedia dei bianchi», nell’ombra gli «invisibili». Quest’ultimi, esistono anche se non vengono visti. Quindi, Ingo li realizza con la stessa cura con cui ha realizzato gli altri, anzi di più, con uno sforzo sovrumano, quasi divino. Perché l’opera sia fedele riproduzione del vero, essi devono esistere ma non essere mai inquadrati, vivere fuori campo. Formichità con il suo procedere rocambolesco si propone di rappresentare il mondo, la vita, non solo nel suo aspetto visibile ma soprattutto in quello invisibile e indicibile: i sogni, le paure, i pensieri inconfessabili, i pregiudizi razzisti e sessisti. Tutto ciò affolla le nostre menti.
Ed eccoci di fronte all’ennesimo trucco di prestigio dell’autore: ciò che sembrava la narrazione intima di B. Rosenberger Rosenberg, che perde capacità di imprimere la sua azione sul mondo – perde la fidanzata, un film unico, le occasioni, la lucidità –, si fa riflessione politica. Come spesso accade ai personaggi di Kaufman, anche il protagonista di Formichità è il resto di una divisione netta, quella del capitalismo postmoderno, della società tecnocratica che taglia fuori i romantici, che non può aspettare gli autentici attardatisi a studiare i moti dell’anima.
La scrittura di Charlie Kaufman in Formichità
La storia di B. Rosenberger Rosenberg è narrata in prima persona. È lui stesso a introdurci nelle spire del suo contorto ma al contempo coerente intreccio dei suoi pensieri, di fronte ai paradossi della vita contemporanea. In alcuni punti nel romanzo si fa riflessione metalinguistica, come quello in cui il protagonista affronta le asperità dell’odierna correctness che ci assilla nell’uso del linguaggio, dove nulla è più naturale. «Lui, lei? Come fare per non offendere nessuno? Ci vorrebbe un pronome neutro. Potrei usare il latino illud, che mi piace molto, probabilmente perché ha un certo pedigree, una lunga storia. I Romani hanno dimostrato una straordinaria quanto involontaria preveggenza anticipando il deserto dei generi dei tempi moderni. Dovrei adottare illud come mio pronome personale, anche se non avrei molte occasioni di usarlo se non quando parlo di me in terza persona». Molto spassose anche le righe in cui il protagonista, cinefilo e critico dai gusti raffinatissimi, si scaglia contro l’opera di Charlie Kaufman: «Costui, concludo, è un poseur della peggior specie, adorato dagli studenti universitari che ostentano il basco e che nella loro nescienza (sicuramente sono dei tali nesci che non conoscono neppure questa parola! Ah!) credono di farsi paladini di qualcosa di incisivo, di originale, di non classificabile».
A cura di Sara Benedetti