Qual è il modo giusto per rialzarsi quando qualcuno se ne va? «Da qui all’eternità» è il racconto di Sara Benedetti
Monica è andata via. Non ci sono state le solite scenate a cui da qualche tempo ci eravamo abituati. Anzi, paradossalmente, le nostri notti insonni, le accuse urlate in faccia per ore e ore ci avevano lasciato già da un po’. E noi non ce n’eravamo accorti. Erano un segnale probabilmente, ma, troppo occupati a fare altro, l’abbiamo trascurato. Monica è andata via e non me lo dice l’armadio vuoto o il lavandino pieno di acqua e miei peli come succederebbe in un telefilm. È la carta igienica messa al contrario che non ho raddrizzato. C’è un modo corretto di mettere la carta igienica nel portarotolo perché scorra meglio e, al momento dello strappo, non balzi fuori dal muro a cui è appesa. Che è il modo giusto io lo sostengo perché lo sosteneva mio padre ed è una di quelle cose che grazie a me continuano a vivere. Questa e un altro paio di manie. Il formaggio, ad esempio. Non si taglia per sé la punta, perché agli altri cosa resta? Da quando lei non c’è più, sono io quello che taglia via la punta dal formaggio, che gira la carta igienica al contrario. Lo faccio per Monica.
Lo faccio per me, per illudermi che Monica sia ancora qui, che sia solo uscita un attimo, per la spesa, per il dentista. Tra poco tornerà. Torna, lancia borsa e cappotto sul divano. Ci vediamo un film, lo sceglie lei, come sempre. Poi si addormenta sulla mia spalla proprio a pochi minuti dai titoli di coda e allora il finale glielo racconto io piano, un finale sussurrato all’orecchio che le scivola nei sogni e si mescola con i fantasmi del giorno. È per questo che Monica è una con i piedi poco piantati a terra. L’ho conosciuta in un corso. Ero molto attivo in quel periodo. Frequentavo un gruppo per la lettura dell’I-Ching, un gruppo di cinefili, uno di cinofili, un corso di cucina messicana e un gruppo di discussione sui diritti umani. Le ragazze più belle erano al corso di cucina messicana, le più intelligenti al gruppo di cinefili, le più gelose ai cinofili, le più incazzate al corso di diritti umani, le più interessanti alla lettura dell’I-Ching, e tra queste c’era Monica. Monica è tutta qui: occhi verdi e capelli ricci. Gli occhi più verdi che abbia mai visto. I capelli più ricci che abbia mai visto. Era appassionata di reiki, costellazioni familiari e respiro primario, forse lo è ancora. Non so, non ne abbiamo più parlato.
Ultimamente parlavamo di pranzo, cena, turni di pulizia per casa. I primi tempi dopo che ci siamo conosciuti, la nostra frequenza ai gruppi era raddoppiata. Io la portavo al cineforum, lei mi portava a reiki, io la portavo alla cucina messicana, lei mi portava alla pulsazione tantrica. Ero contento, mi sentivo vivo a fare tutte quelle cose, mi sentivo vivo a guardarla negli occhi e vivo al pensiero che la sera avrei fatto l’amore con lei. Perché nel frattempo Monica mostrava nei miei confronti lo stesso interesse che provavo io e questa cosa creava un corto circuito di entusiasmo. Questo è stato il periodo più bello: quando ogni cosa che diceva mi sembrava geniale, effervescente o, nel peggiore dei casi, la stessa cosa che avrei detto io. Questo è il nostro periodo «casa». Ci sentivamo a casa, al sicuro, innamorati e vaffanculo il mondo. Vaffanculo il lavoro, vaffanculo l’università che non ho finito, vaffanculo mamma e papà che non mi avete mai capito e tu papà che nel frattempo sei anche morto, vaffanculo tutte le cose che non ho la forza di affrontare. Io ho Monica e non voglio perdere tempo, anzi non so neanche più cosa significhi il tempo. Io ho Monica. Monica ha me. Due anni dicono i giornali stronzi, quelli che non comprerei neanche sotto tortura, però poi accendi la tv e c’è una trasmissione che al giornale stronzo gli copia l’articolo di punta. Due anni dura l’innamoramento, poi si scende inevitabilmente la china. Due anni sono passati. E c’è una cosa che mi fa ancora più incazzare del tempo che scorre, dei rimpianti che restano, dell’invidia degli altri che alla fine vince sempre, è che l’I-Ching non ci prende mai e i giornali stronzi sì.
Scrivono cazzate per riempire la testa e svuotare il portafoglio di casalinghe scontente e scrivono la verità. Sono passati due anni e io e Monica abbiamo fatto finta di niente, ma, ad esempio, non facevamo più l’amore come prima. Prima lo facevamo tutti giorni, anche varie volte al giorno. Poi non più. Prima anche nella vasca da bagno. Prima urlavamo, anche se ci sentivano i vicini. Poi non più. Eppure io la volevo ancora. La volevo accanto nel letto, mentre cucinavo la cena, mentre correvo nel parco. Io la volevo, lo giuro, però ora mi infastidiva come riempiva la casa di incensi o come citava sempre gli stessi versi di Krishnamurti quando avevamo amici a cena. E a lei dava noia che io bevessi direttamente dalla bottiglia dell’acqua o lasciassi la mia tuta sudata e maleodorante sparsa per la casa al ritorno dal footing. Monica era la ragazza più bella che io conoscessi, la più seducente, ma da un po’ avevo iniziato a guardare le nostre amiche sotto un’altra luce, una luce nuova. O vecchia, dipende dai punti di vista. Credo di aver capito l’esatto punto in cui ci trovavamo nella parabola della nostra storia un pomeriggio del mese scorso, quando Monica è tornata a casa ostaggio di un attacco di panico, fradicia di pioggia, tremante. A Monica capita di uscire in automobile e tornare a casa terrorizzata di aver investito qualcuno. La prima volta che le è successo da quando vivevamo insieme, mi si è sciolto qualcosa qui, all’altezza del cuore. L’ho abbracciata stretta sul divano, le mie dita che sfioravano le sue costole appena sotto la maglia. Sembrava di accarezzare il cucciolo di una nuova specie, un piccolo essere dal respiro affannato. La mia faccia persa nei suoi capelli tutto il tempo che ci è voluto per raccontare. Poi, con la sua mano stretta nella mia, siamo scesi in garage come due fratelli che fanno un sopralluogo prima di confessare il misfatto ai genitori. Anzi, vagliando ancora l’ipotesi che, nel caso di danno minimo, si possa tacere del tutto l’accaduto. E quel qualcosa che prima si era sciolto, ora si rimaterializzava nel mio torace e batteva fortissimo fin dentro le orecchie. Avevo paura di trovare il parabrezza sfondato dalla sagoma di un uomo, paura che mi togliessero Monica, che la rinchiudessero in un carcere che non le somigliava per niente, che uno stupido inciampo del caso la facesse scomparire ora che l’avevo trovata.
«Ma no, guarda Monica, la carrozzeria è a posto, anche il parabrezza è ok, e i vetri dei fari sono dove sono sempre stati, non è successo niente. Non hai ucciso nessuno. Andiamo a farci una doccia e poi ti cucino un papas y chorizo, te lo faccio un po’ piccante stavolta, ti va?» Invece il mese scorso Monica rientra in casa terrorizzata, lascia le chiavi nella toppa esterna della porta (ed è una cosa che le ho chiesto di non fare – quante volte?), tenta qualche passo, al mio sguardo dice: «Ho paura». E io non faccio niente. Non mi alzo, non l’abbraccio, non le accarezzo i capelli né le costole sotto la maglia. Rimango fermo. Lei aggiunge che stavolta è diverso, ha preso la tangenziale, in tangenziale si va più veloci e lei ha paura di non essersi accorta. E io ancora niente, fermo. Sento di non avere più energie per le sue paranoie. Che se le risolva da sola. E lei lo capisce e va in bagno, si asciuga nervosamente i capelli con il phon. Io alzo il volume del televisore perché il finale di Viale del tramonto non me lo deve rovinare niente e nessuno ma la sento ugualmente che singhiozza. E per cena niente papas y chorizo. Per cena una zuppa scaldata al microonde. La verità è che non è Monica ad avermi deluso, sono io. È la mia coda di pavone che ha una durata limitata, una scadenza, come la carrozza di Cenerentola. Io non sono uno che frequenta un corso ogni sera per tutta la settimana. Io non sono uno brillante, un progressista focalizzato sul futuro, uno che fa footing con il contapassi e l’ultimo ritrovato antishock ai piedi. Io corro per lasciarmi dietro un sacco di cose, non per raggiungere qualche posto. E la cucina messicana dopo un po’ mi fa venire il bruciore di stomaco. I cani in fondo mi sembrano tutti uguali. L’I-Ching non ci prende mai. E anche i cinefili mi hanno stancato con tutti quei fiumi d’inchiostro sul piano sequenza di Quarto potere. Così non vado più da nessuna parte. Sdraiato sul divano, mi guardo un’altra volta Da qui all’eternità e aspetto Monica. È molto tardi, è vero. Ma sento che tra poco tornerà e ci guarderemo un film, lo sceglierà lei anche se si addormenta sempre prima del finale, lo sceglierà lei perché tra noi funziona così.
Sara Benedetti
1 Comment
Ciao Sara, il tuo racconto me lo sono letto tutto d’un fiato al lavoro, in una pausa caffè dove il caffè l’ho messo da parte, tanto quella macchinetta lo fa sempre troppo leggero, come quello che riesci a raccattare in guerra. Davanti allo schermo del pc, via le fatture, via le notifiche, via tutto quanto.
Mi ha colpito la consapevolezza chirurgica con la quale hai descritto la parabola discendente di questa coppia. Non tanto per quello che hai scritto, ma per il fatto di averlo scritto. Ci sono cose di cui non si parla nemmeno con sé stessi, perchè una volta fatto, poi, diventano vere. Ma con uno sconosciuto sì.
Grazie per avere condiviso questo tuo scritto.