Estate 1990: i Mondiali, il SuperTele, i bagni e un funerale. Totoduna è il racconto di Francesco Sala

 Estate 1990: i Mondiali, il SuperTele, i bagni e un funerale. Totoduna è il racconto di Francesco Sala

Illustrazione di Gianluca Capozzi

Dalle parti mie se hai i soldi veri hai anche una casa in Costa Azzurra. Se i soldi li hai, ma mica così tanti, allora la casa ce l’hai in Liguria: nei posti buoni però, tipo le Cinque Terre. Se di soldi ne hai pochi, ma comunque qualcosa hai, te ne stai tra Celle Ligure e Andora.

Provo a immaginare il primo ominide che si alza sulle zampe posteriori, pensa di avere soldi abbastanza per la casa a Nizza e all’agenzia immobiliare si accorge di non riuscire ad andare oltre Diano Marina. Lo scatto evolutivo nella sua capacità di convincere gli altri che Diano sia meglio di Nizza. È più vicina, parlano italiano.

A prevalere non è l’individuo migliore, ma quello che sa adattarsi.

Noi le vacanze del 1990 le abbiamo fatte ad Albissola. A casa di Paolo e Gabriella, che pure di soldi ne avevano e nessuno ha mai capito allora perché stessero proprio lì. E davano quasi l’impressione di soffrirlo quell’appartamento – le riunioni di condominio da osservare, i piccoli interventi di manutenzione da programmare con fabbri, elettricisti e idraulici del posto che provavano a fotterli con la protervia del colonizzato che vuole rifarsi sul colonizzatore – e sembrava quasi fosse una condanna, una distrazione alle vacanze che passavano invece più volentieri viaggiando in giro per il mondo, fermandosi solo un attimo nelle diapositive che in inverno guardavamo insieme, il sabato dopo cena in salotto. Mio padre non riusciva a mettere in bolla il telo da proiezione; il fuoco sbiadito delle lenti portava la stessa nebbia dall’Himalaya al Madagascar. Voci sulle quali addormentarsi – io bambino sul divano – assuefatto dall’odore del dopobarba di Paolo.

***

Quelle vacanze sono arrivate dopo i Mondiali, che non sono stati semplicemente Quelli Giocati in Italia, ma Quelli Quando È Morto Nonno. Contro l’Uruguay il televisore era acceso ma senza audio; dalla stanza di là lui gridava qualcosa ai suoi genitori morti: dicevano fosse colpa della morfina, ma lui sembrava vederli per davvero, sembrava schiumare dalla voglia di essere già di là con loro e non più di qua con noi. Aveva uno sfogo cutaneo sulla nuca che mi faceva paura, la pelle sembrava le squame di un dinosauro. Mi avevano sgridato per averglielo detto. E i grandi andavano e venivano dal suo letto al salotto; gli uomini provavano a buttare ogni tanto un occhio alla partita, ma si capiva che era solo perché magari Totò riusciva a portarli via di lì.

Totò venuto dal niente e destinato a non andare da nessuna parte.

Il giorno del funerale Gianni mi aveva convinto a giocare con il SuperTele in cortile, ma facevamo casino e ci hanno sgridato male. Mi hanno trascinato davanti a nonno aperto nella bara e mi hanno detto se lo vedevo o no, che era morto e non si poteva giocare così se c’era nonno morto in casa. Gianni era sparito al primo grido: io solo sono rimasto a rendere conto del nostro gioco davanti a un nonno grigio e giallo che non respirava più. Aveva le labbra sottilissime: sembrava che a un certo punto pure lui dovesse dire quanto avevamo sbagliato.

Le labbra però sono rimaste chiuse.

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Ai Bagni Sport, anche se era già fine agosto, di bambini ce ne stavano ancora tanti. Il capo di tutti i giochi era Diego. Come Maradona. Uguale a lui era piccolo e alla stessa maniera aveva un’energia addosso che lo rendeva calamita. Tutto poteva e tutto ordinava, decideva, imponeva. Con naturalezza, incomprensibile e terribile come un’antica divinità pagana: un semidio silvano, personaggio selvatico e imprendibile, odoroso di brani di mirto rimasti impigliati tra i capelli disordinati, vorace di ogni appetito e disinvolto nel tradimento, gioioso nel dispensare condanna o salvazione. Sempre e comunque irraggiungibile. Una condizione, questa della distanza, scavata all’anagrafe: Diego era di Savona; e quindi era di lì, era del posto, era uno che al mare stava tutto l’anno e sopravviveva al continuo rigurgito di automobili eruttate dal casello e dall’Aurelia. Per lui non esistevano amicizie estive, ma nomi e volti che con il passare delle settimane si sovrapponevano ad altri nomi e altri volti, situazioni che si creavano e ricreavano per poi comunque cancellarsi al ritmo di quel mare davanti al quale tutto svaniva e lui solo, sempre, restava.

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Arrivava ogni mattina molto presto. Suo padre lo portava lì prima di andare a lavorare, aggrappato sul fondo del sedile di una Vespa. E lì lo lasciava, Diego, in una solitudine piena di gente: il conto aperto alla cassa, il panino con il prosciutto per il pranzo nella sacca impiccata in cabina, l’assicurazione sempre disattesa che non avrebbe fatto il bagno prima delle quattro.

La mamma di Diego non viveva più con loro e per questo il padre, a scuole chiuse, si era arrangiato in quella maniera: in assenza di adulti disposti a occuparsene, aveva trasformato in adulto suo figlio.

La padrona dei Bagni Sport aveva un pastore catalano nero, femmina. Si chiamava Duna. Le spiaceva lasciarla a casa, tutto il giorno sola, e quindi se la portava al lavoro. In assenza di persone disponibili a occuparsene, aveva trasformato Duna in persona.

Se ne stava ai bordi del bar, accasciata molle nel suo pelo lungo, alzandosi solo per guadagnare la ciotola dell’acqua. Non dava mai grandi soddisfazioni alle mani che si chinavano per grattarle la testa: stava lì.

Tranne quando Diego irrompeva nel bar con il SuperTele nero e blu, palleggiando tra i tavolini: allora rizzava il muso, lasciava trasparire la punta golosa della lingua tra le mascelle appena dischiuse e subito gli correva dietro, irrompendo nelle nostre infinite partite pomeridiane. Non duravano mai troppo le sue performance, ma le corse forsennate dietro il pallone, in omaggio a Totò, le erano valse il soprannome di Totoduna. Segnava con il contagocce, ma ogni sua prodezza era chiaramente salutata da esultanze furibonde. Nella vergogna incancellabile del portiere di turno.

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Ogni giorno un ombrellone dei Bagni Sport restava chiuso per non riaprirsi più fino al giugno successivo, una sdraio restava piegata sul fianco. Agosto era ormai finito e con lui, prestissimo, lo sarebbe stata anche la nostra vacanza. Sempre meno gente in spiaggia, soprattutto verso sera. Sempre meno bambini, meno compagni di giochi. Sempre più confidenza e intimità con quanti resistevano, condividendo una complicità di sopravvissuti. E Diego sulle barricate, a guidare un manipolo sempre più misero e stanco; Diego che sarebbe rimasto, ancora e ancora, fino allo scoccare del primo giorno di scuola e forse persino oltre; Diego che sarebbe sopravvissuto alla risacca del gas di scarico che trascinava via gli amici di un’estate. Sarebbe rimasto lì, a riempire con leggerezza ore più rapide, aspettando gli starnuti del motore della Vespa che a sera lo veniva a raccogliere per riportarlo a casa, infilando i tornanti dell’Aurelia verso il metallo arrossato del porto.

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L’ultima sera prima della partenza siamo stati in spiaggia fino all’ultimo, anche dopo che il bagnino aveva pettinato la battigia, a salutare a uno a uno i vicini di ombrellone che venivano a porgere gli arrivederci – una compita processione di stracci e asciugamani e prendisole dai colori eccitati contro il cielo già virato in un viola livido.

Siamo rimasti così a lungo che alla fine, mentre mamma si cambiava in cabina, sulla sabbia non c’era altri che Diego. L’ultimo amico, l’ultima persona rimasta da salutare.

«Devo dirti una cosa» ha fatto, dopo aver drizzato le orecchie al respiro della Vespa che già lo aspettava in strada a motore acceso.

Mi sono avvicinato, abbastanza perché lui si acquattasse all’improvviso e rialzandosi come una molla mi schiantasse un poderoso montante destro sui coglioni.

«Scusa, dovevo farlo» e se ne è sparito di corsa sollevando la polvere.

E io accasciato a terra, la faccia mezza immersa nella sabbia ormai fredda, le mani strette tra le cosce. Duna si avvicinava ciondolante, la lingua penzoloni.

 

Francesco Sala

Blam

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