Un condominio e tutte le vite che lo abitano: La sigaretta è il racconto di Anna Maria Pipolo
Riconosco la bussata di Ivana, del primo piano. Smetto di avvilirmi per le foglie aggrinzite dell’orchidea e vado ad aprire, non prima di aver chiuso la stanza alle mie spalle, per nascondere le tracce di terra lasciate dal trapianto di una begonia morente. Ivana è così ordinata, socievole, precisa, truccata anche in casa, qualità che non mi appartengono. Né mi appartiene l’empatia col prossimo. Preferisco le piante. In comune io e Ivana abbiamo solo la mezza età e la solitudine sentimentale.
Ha in mano le sue chiavi, il pacchetto di Winston e l’accendino già pronto. Condivisione. Da quando viene a fumare qui da me fumo anch’io, per farle compagnia e per dire ciao alle cose che volevo fare. Mi aggiorna sui fatti di tutti, proprietari e inquilini, figli e padri, auto parcheggiate, tutte cose che ascolto senza interesse, perché questo quartiere non riesco a farmelo piacere, privo di verde e di cielo. Sbagliai a comprare qui.
Adesso, mentre fuma e rifiuta il caffè – forse teme che non lavi bene le tazze – prende a raccontarmi del signor Luigi, l’anziano suo dirimpettaio, che è rimasto vedovo da un anno.
«Che guaio che ho passato» dice premendo dieci volte il mozzicone nel posacenere. «Da quando è mancata la signora Franca mi bussa sempre alla porta, con ogni scusa, ha voglia di parlare, e mi fa perdere un sacco di tempo.»
Ben ti sta, penso senza dirglielo, perché lei li ha sempre considerati ottimi vicini. Io invece non li ho mai potuti soffrire, da quando anni fa mi accusarono ingiustamente e ostinatamente di un danno al finestrone nelle scale, con tanto di dettagli inventati. Da allora li ho bollati con un rancore duraturo. Soprattutto lui, il marito, che gira sempre tronfio con un borsello a tracolla.
«Pure lui adesso si è scimunito» continua Ivana, «com’era la moglie! Che mi bussava di continuo, per chiedermi una sigaretta e ripetermi sempre le stesse cose.»
La signora Franca lo faceva anche con me, in verità, anche se meno. Mi aspettava spesso, mentre salivo le scale, ferma nello spicchio della porta con una Merit tra le dita laccate di un rosa tenue per chiedermi – confondendomi con Ivana – se le avessi comprato le sigarette, missione da nascondere al marito. E poi sul pianerottolo cominciava a parlarmi del figlio lontano, animandosi con gli occhi, e poi del marito con un’espressione dura, cercando parole… non si può sopportare… un cerbero… una prigione. E alla fine, quando io prendevo a salire la rampa, mi seguiva con lo sguardo, la mano alla ringhiera e qualche precisazione da aggiungere.
Non era invece rancore ma piccineria, la mia, quando dalla finestra l’ho vista per l’ultima volta l’anno scorso, stesa, gli occhi chiusi, bianca e immobile nel pigiama rosa sulla barella del pronto soccorso. E poi quell’ultima immagine di lei: lo scossone involontario della testa e dei capelli castani, quando le ruote del carrello si ripiegarono a scatto per entrare nell’ambulanza.
È un po’ che fumo da sola perché Ivana ha accettato un lavoro in un’altra città. Dice che non vede l’ora di tornare, che dove si trova piove sempre. Ho appena dato l’acqua alle piante del suo appartamento, come mi aveva chiesto, e sono rientrata nel mio. Esco sul balcone evitando di guardare le finestre di fronte, squallide. Famiglie di anziani, case popolari di genitori i cui figli hanno comprato altrove, a cercare più spazio e più lusso. La domenica si vedono tornare, figli e nipoti, venire a far visita coi bimbi piccoli, salire coi passeggini sottobraccio perché non c’è l’ascensore. Spengo la mia Dunhill sul bordo di marmo poroso.
Adesso da dove cominciare per organizzare questa domenica? Faccio pulizie, o riprendo quel libro che stavo leggendo ieri? Mi dirigo ai libri quando sento bussare.
Guardo dallo spioncino: è proprio il signor Luigi. Non vorrei aprire, ma poi, forse per pena forse per senso di colpa, faccio la brava. Lui entra tutto affannato nel corridoio, con il borsello sulla pancia prominente si impone in casa mia, si dirige alla mia cucina – che ha la stessa collocazione della sua – e mi fa capire che vuole sedersi.
«Ma quando torna Ivana?» mi chiede.
«Tra non molto, il mese prossimo.»
«Che? Parla ad alta voce, ché non ci sento» e fa segno all’auricolare nell’orecchio, poi si aggiusta sulla sedia. Mi siedo anch’io, nel ruolo di buona samaritana supplente. Mi chiede prima dell’amministratore, che non si è visto, e che di sicuro verrà presto a chiedere soldi. Non vuole il caffè neanche lui, perché ha la pressione alta mi spiega, e no, grazie, non gradisce niente. Passa piuttosto a elencarmi acciacchi e cure, e cerca con la punta delle dita il nome del cardiologo, ci rinuncia, poi gli viene in mente e lo declama. Con le braccia ad arco sulle ginocchia conclude con la sfiducia verso i medici: «Anche mia moglie, per esempio» e qui la voce si fa docile e bassa, la testa piegata, «forse si poteva salvare…»
Mi faccio più attenta per ascoltare senza interromperlo e lo guardo. Penso a mio padre, che durante la sua malattia mi ha avuta lontana, per il lavoro, e chissà a chi confidava i suoi crucci giornalieri.
«Io sono sempre stato lucido» ci tiene a premettere, riferendosi all’età, «a differenza di mia moglie. Eppure aveva dieci anni di meno. Perciò facevo tutto io, dalla spesa alla cucina. Tutto.»
Beh, non so se credergli.
«La cosa peggiore era che lei non mi dava retta su niente. Per esempio voleva tenersi lei i soldi della pensione, ma: a che le servivano, visto che quasi non usciva più?»
Fa un respiro e una pausa: «E per le sigarette poi? Non ne parliamo, non mi stava a sentire mai!».
«Di sigarette ne fumava parecchie, vero?»
«Come?» gira l’orecchio destro verso di me.
«Fumava assai?»
«Anche la sera prima di… quand’è successo, insomma… dell’ambulanza.»
Si sposta il borsello da destra a sinistra.
«Quella sera… Io di solito mi regolavo così: compravo il pacchetto apposta per lei, visto che io non ho mai fumato, e però lo nascondevo in un mobile alto, per dargliene una alla volta, razionate. Dopo cena a volte anche due, la seconda solo se insisteva. E invece lei diceva a tutti che ero un tiranno, volevo comandare coi soldi suoi, che non era più padrona di niente.»
Rivedo le unghie rosa laccate, il fumo che si sfilacciava sulle rughe e sugli epiteti.
«Insomma, quella sera avevamo litigato per questo motivo e rifiutò la sigaretta, era arrabbiata. Se ne andò a letto prima di me e io gliela lasciai sul piano della cucina, in bella vista, per fargliela trovare se si alzava più tardi. E invece no, si era girata dall’altro lato, come se già dormisse.»
Gli verso un bicchiere d’acqua, perché lo vedo un po’ agitato, e questa volta lo accetta, prima di continuare.
«Meglio così, pensai. Però alle cinque del mattino non c’era più nel letto. Forse è andata in bagno, mi dissi, alzandomi. La sigaretta era ancora lì in cucina, ma… quando guardai nella stanza a fianco» stringe le mani incrociate battendole poi sulle ginocchia, «la vidi, stesa lì a terra, immobile, con una mano ancora attaccata allo stipite dell’armadio.»
Mi guarda per precisare che subito si era attivato per avvisare il figlio, per chiamare l’ambulanza, che forse i medici ce la potevano fare a salvarla.
«E nel frattempo mi accorsi che c’era una scopa di traverso, per terra, e capii. Con quella aveva cercato di aprire l’anta in alto, dov’era nascosto il pacchetto, e infatti c’era riuscita, perché era ancora aperta. Ma per quello sforzo le era successo qualcosa nel cervello.» dice scuotendo il capo. «C’era ancora il pacchetto in bilico, lassù. Ma se la sigaretta era pronta sul tavolo, dico io! Eccolo, aspe’, te lo voglio far vedere!» cerca nel borsello, con le dita che si sono fatte tremanti, trova il pacchetto e me lo mostra come un sacramento da portare in giro. «Da allora lo tengo sempre con me, sempre.» E abbassa la testa.
Anna Maria Pipolo
1 Comment
Anna maria scrivi divinamente . Un forte abbraccio . Con te condivido la passione per le piante e per le mie orchidee un pò trascurate !